La cucina a parole
“Lo storico dovrà dedicare una pagina appropriata alla donna ebrea in questa guerra (…) È grazie a loro che molte famiglie sono riuscite a superare il terrore di questi giorni…”, scrisse Emmanuel Ringelblum prima di essere eliminato. Wilhelmina “Mina” Pächter morì nell’ospedale di Theresienstadt il giorno di Kippur del 1944, il giorno dell’espiazione e del digiuno. Di lei ci resta un ricettario, scritto nel ghetto/lager insieme ad altre donne, la cui vicenda è raccontata in Sognavamo di cucinare, LeChâteau Editore. Più che il rocambolesco viaggio che dalla terra ceca ha condotto quel pacchetto (c’erano anche una fotografia e alcune lettere) prima in Palestina e finalmente nelle mani del destinatario, la figlia Anny, in un appartamento in Manhattan East Side, più che le ricette in sé, austro-ungariche, più o meno o per nulla kosher, a colpire è l’insegnamento di tutto ciò. Annientate dalla fame, quelle donne resistono, si sforzano di mantenere un legame con le proprie radici, con i sapori e i colori e i ricordi dell’infanzia, la famiglia intorno a una tavola, le feste, le usanze. Cucinano “a parole”, e non soccombono. Vincono perché non perdono l’umanità e, forse, la speranza. Sopravvivono a una fame per noi inimmaginabile che annulla il passato e inchioda soltanto all’attimo presente, al subito, non c’è ieri, non c’è domani. Mina e le sue compagne, con quelle ricette, sconfiggono Amalek.
Stefano Jesurum, giornalista
(24 gennaio 2013)