Tra democrazie affannate e populismi aggressivi
Che cosa sta succedendo in Europa, ed in particolare in alcuni paesi, quelli che di più e peggio subiscono gli effetti della crisi economica? È lecito parlare di un ritorno dell’antisemitismo e, in caso affermativo, in che cosa esso si connoterebbe? Non di meno, qual è la condizione reale di società come quella ungherese o quella greca, dove alle difficoltà economiche si accompagnano segni, purtroppo in questo caso incontrovertibili, di una sorta di rifascistizzazione del tessuto culturale e politico? Se ne avrà modo di parlare in un incontro che la Comunità ebraica di Trieste, in accordo con il museo Carlo e Vera Wegner, organizza per mercoledì 29 maggio sul tema «Un declino inarrestabile? L’Europa dinanzi ai populismi ed al ritorno dell’antisemitismo». Argomenti spinosissimi, non solo perché di stringente attualità ma anche poiché più complicati di quanto non paiano a uno sguardo distratto, magari propenso a giudizi tanto sommari quanto superficiali. In realtà, sarebbe ingenuo pensare che il dirompente autoritarismo che ha attraversato la storia dei fascismi-regime, quella che si dipana dagli anni Venti agli anni Quaranta del secolo trascorso, così come la fascinazione dei nazionalismi e, più in generale, di tutte quelle forme di “conservatorismo rivoluzionario” che hanno fatto da nerbo al pensiero e all’azione della destra radicale, prima, durante e dopo la fine della Seconda guerra mondiale, si siano esauriti con l’affermarsi della democrazia. Poiché esse si alimentano permanentemente della crisi di quest’ultima, essendone per più aspetti il reciproco inverso. Se con la conclusione della guerra, nel 1945, il fascismo fu relegato politicamente a figura di relativa marginalità, essendo attore secondario, a tratti semi-clandestino, nel proscenio di quelle forze maggioritarie, fedeli al patto legalitario e costituzionale che andò istituendosi, non di meno la sua attrattività non scemò del tutto. Scontava di certo la gravissima crisi che la sconfitta militare, in una guerra che aveva scatenato, gli assegnava. Ma fare coincidere tale condizione di minorità con la sua fine storica era già allora un azzardo. Il tempo, peraltro, si sarebbe incaricato di mostrare il contrario. Ad occidente del muro di Berlino e della cortina di ferro fu variamente messo al bando, ripresentandosi però sotto inediti, e più accettabili, panni. Ad oriente, la ridondante retorica comunista e l’antifascismo di Stato dei nuovi autoritarismi, semplicemente rimossero il problema della compromissione delle società locali. Fingendo che una pennellata di rosso eliminasse quel che di nero (come anche di grigio) c’era stato. La forza del neofascismo, sorto sulle ceneri dei regimi che lo avevano preceduto, stava senz’altro in una composita miscela di cose ma rinviava, prima di tutto, alla consapevolezza, da sempre nutrita, che la politica, nella società contemporanea, implicasse l’appello – e quindi la mobilitazione – delle masse. Il nocciolo del fascismo sta nel suo essere un soggetto politico a fondamento sociale, ovvero che guarda con consapevolezza alla dimensione collettiva, e quindi al problema della costruzione e della ricostruzione permanente del consenso (non importa quanto manipolato), come ad un obiettivo imprescindibile. La destra radicale sostituisce all’aborrito principio di eguaglianza, vissuto come fumo negli occhi, quello dell’uniformità: non si è eguali nei diritti e nelle opportunità bensì nell’appartenenza ad un comune ceppo, nazionale, etnico e razziale. Chi non è parte di questa “comunità” non ha diritto alcuno, essendo semmai elemento di distorsione, potenziale o reale, quindi da marginalizzare e, in prospettiva, da espellere. Il tema del consenso non pare invece essere questione altrettanto chiara, e quindi acquisita una volta per sempre, dal pensiero liberale, il quale continua a ritenere che il nocciolo dell’azione di governo sia il raccordo tra la libertà individuale e l’intervento sapiente delle élite. Il fascismo, in tutte le sue varianti, ha quindi sempre coltivato un nocciolo populista, dove il rapporto diretto, senza mediazioni di sorta, tra capo e collettività è un passaggio ineludibile della sua capacità di proporsi come risolutore delle grandi crisi. Nella semplificazione, al limite della banalizzazione e trivializzazione, della complessità sociale; nell’identificazione di capri espiatori sui quali fare ricadere integralmente la responsabilità degli innumerevoli problemi della quotidianità; nell’atteggiamento deliberatamente anti-intellettuale, laddove esso non è connotato tanto dal rifiuto dei corporativismi accademici quanto dalla diffusione del sapere critico nella collettività; nell’insofferenza verso ogni mediazione democratica, intesa come una perdita di tempo, e nei confronti del pluralismo, descritto come un attentato all’”identità nazionale”; nella gerarchizzazione e militarizzazione della vita quotidiana, laddove al principio di autorità si sovrappone e si confonde quello di autoritarismo; nell’esaltazione di una presunta veracità, intesa come autenticità profonda, sincerità di umori e sentimenti, del cosiddetto “popolo”, dotato di un sapere a sé, di cui il capo e la leadership sarebbero gli unici depositari; nel falso interclassismo, dove alle differenze sociali, di interessi e di atteggiamenti viene contrapposto l’appello alla “fusione in unico fascio di forze”, si rintracciano alcuni tra gli elementi dell’atteggiamento che attraversa e sostanzia la proposta populista più radicale. La quale assume inesorabilmente, al momento della sua ascesa al potere, i connotati di un regime politico antidemocratico. Oppure post-democratico, nel senso che si adopera per devitalizzare tutti gli strumenti della democrazia, di fatto anestetizzandoli. Se la democrazia demanda, tra le altre cose, alla separazione dei poteri, alla visibilità del processo decisionale, al pluralismo tra maggioranze e minoranze come principi cardine, il populismo fa piazza pulita di tutto ciò, denunciandone il presunto carattere fittizio e la sua inadeguatezza rispetto alle urgenze dei tempi. Così come da subito aggredisce le élite, molto spesso immaginarie, ossia create ad arte, dipingendole come “nemiche del popolo” perché impegnate a curare i propri interessi di contro a quelli della collettività. Si tratta, come si avrà modo di osservare, di temi di grande richiamo, capaci di coalizzare e convogliare su di sé un rilevante numero di persone, delle quali sollecitano aspetti del giudizio di senso comune, sollecitando il vittimismo di quanti si sentono sopraffatti da una condizione che non capiscono e per la quale percepiscono di non avere risposte, non almeno individuali. L’antisemitismo non è detto che sia un immediato e obbligato pendant di questa traiettoria ma è comunque parte integrante della costellazione di pensieri e idee che la accompagna. Poiché è una risorsa ideologica fondamentale per chi amministra le paure e le angosce di collettività a rischio di declino. Da questo punto di vista, il radicalismo ideologico neofascista e l’antisemitismo sono tutto fuorché residui del passato. Non reliquie e neanche vestigia ma, in buona sostanza, progetti per il riordino di comunità nazionali laddove la crisi della coesione sociale ha trascinato con sé una parte della popolazione, spalancandole sotto i piedi di nuovo la botola della povertà. Quanto meno, quella del declassamento sociale ed economico. Non è quindi detto che si presentino con le medesime vesti che un tempo indossarono e tuttavia è certo che siano elementi di una risposta alle crisi del tempo che stiamo vivendo. Nello specifico, la questione si pone poi in relazione ai disequilibri e alle incongruenze che stanno contrassegnando il percorso di unificazione europea. Quest’ultimo, nato ed alimentatosi del principio per il quale si dovevano porre le condizioni strutturali affinché quello che era stato in Europa, in termini di lutti e tragedie, non avesse a ripetersi, sta invece rivelando, oggi più che mai, quelle discrasie e quelle discontinuità che potrebbero generare una drammatica stagione di eterogenesi dei risultati: invece che uniti sulla base di un superamento delle eccessive sperequazioni sociali ed economiche e sulla scorta di un’autentica integrazione culturale e politica, divisi nella lotta tra paesi ricchi e società in via di impoverimento. Gli uni e le altre ripiegati su di sé: i primi a tutelare le proprie prerogative di soggetti economicamente forti, trasformandole di nuovo in privilegi assoluti; le seconde affannate a trovare improbabili soluzioni, dal momento che il mercato internazionale ne ha decretato la marginalità. La vicenda ungherese, quella greca ma, più in generale, il revanscismo etnico e nazionalista che si accompagna all’afasia delle democrazie, stanno dentro questo recipiente. Confidando che non trabocchi. Parlarne a Trieste, una delle capitali mitteleuropee, città di transito e di ibridazioni, luogo dove le culture europee, e non solo, si sono confrontate, lasciando un’eredità ricca, ma anche epicentro della violenza nazista contro l’ebraismo, rinvia alla necessità di una coscienza critica, sì allarmata ma anche capace di rilanciare lo spirito della consapevolezza attiva di contro ai troppi pessimismi della ragione.
Claudio Vercelli
(26 maggio 2013)