Eguali, non uniformi
Nei labirinti mentali di chi vuole imporre, forzatamente, la sua visione del mondo agli altri alligna sempre quella convinzione spietata, che prima o poi si esprime con una secca rivendicazione, piena di compiacimento e orgoglio, di essere la parte sua l’espressione di una posizione «non ideologica». Ciò in virtù del fatto che il proprio pensare, dire, fare sarebbero esenti dal costituire una visione per così dire partigiana delle cose del mondo e della vita. Anzi, ne farebbero, una volta per sempre, piazza pulita. Tra coloro che sono i più ideologici sussiste la necessità, a volte addirittura esasperata, di rivendicare una specie di innocenza originaria, che suona più o meno in questi termini: non siamo noi a volere manipolare le cose, semmai sono gli altri a farlo o, al limite, sono le cose stesse ad essere manipolate o manipolabili. Per parte nostra, aggiungono costoro, cerchiamo di riportare le cose al loro stato originario, alla loro «purezza». A ben pensarci in tale modo di dire c’è qualcosa di vero, ancorché nel senso del paradosso, poiché chi concepisce così l’esistenza ritiene non di esserne l’espressione parziale – una tra le altre, come in realtà è – bensì di costituirne la sintesi totalizzante, la definitiva soluzione in un’unica dimensione, l’unica possibile. La buona fede, quando sussiste, in questi casi non è mai un’attenuante ma piuttosto un’aggravante. Perché incentiva la convinzione, radicata e radicale, che le proprie ragioni siano la Ragione tout court (quella con la maiuscola) e che ciò che non si incontra o non si combina con questa premessa sia semplicemente un particolare trascurabile o, più frequentemente, una minaccia da rimuovere. Se si vuole un riscontro concreto in tal seno, si vadano a leggere le strologate di un Robespierre sulla «virtù» civica E si contino le teste ghigliottinate, tra cui la sua. Nei totalitarismi e nei fondamentalismi – i due termini sono intercambiabili, poiché costituiscono gli indissolubili elementi di un binomio – questo tratto è ripetuto con maniacale assiduità. Ed è riproposto in tutte le salse, scodellato come la minestra più buona, servito a tavola come il piatto unico, quello di eccellenza. Se c’è qualcosa che distingue il pensiero democratico, in tutte le sue accezioni e sensibilità, è tuttavia la duplice cognizione che la vita implichi il prendere parte (quindi l’essere una parte e non invece il tutto) e che in tale sforzo si collochi quella cosa che muove la vita e che chiamiamo conflitto. Conflitto che non è in sé una dinamica dilacerante, non costituisce l’inverso dell’ordine sociale, men che meno un disvalore, ma l’essenza stessa delle relazioni in una società di “diversamente eguali”, dove il presupposto dello stare insieme è che gli interessi materiali divergenti e le diversità culturali siano alla base dell’unione tra persone che sono e rimangono distinte tra di loro. Il sistema democratico non fonda nessuna totalità, ancora meno se etica, quella che invece deriva ai circuiti antidemocratici moderni dal fondarsi sulla tirannia del sempre identico. Cosa vuole dire tutto ciò e per quali ragioni ha a che fare con una newsletter che si occupa prevalentemente di questioni ebraiche? Non si tratta solo della questione, in sé comunque strategica, del ruolo delle minoranze nel rapporto con una maggioranza, ma rinvia all’ancora più ampio problema della formazione delle identità in una società come la nostra. Che la dimensione delle relazioni sociali nelle quali viviamo abbia assunto una natura molto più fluida, a tratti incerta, senz’altro sfuggente rispetto al passato, è un fatto evidenziato da tanti. In un tempo non troppo lontano l’esistenza era contraddistinta dalla prevedibilità, da una calcolabilità quasi certa di molti dei suoi aspetti. Prevaleva, per così dire, la lunga durata. In questi ultimi decenni, invece, è subentrata una velocizzazione e un’intensificazione degli scambi. Tutto si è fatto più repentino e, quindi, instabile. Quella cosa che chiamiamo «crisi» ha molto a che fare con questo stato di incertezza. Se nel passato le identità degli individui, come dei gruppi, erano garantite dalla stabilità oggi, a parte quelle enclave che coltivano la loro separatezza dal mondo, per la stragrande maggioranza delle persone il mutamento è divenuta una costante. Si sono cosi innescati due fenomeni paralleli: l’abitudine a doversi confrontare con la trasformazione incessante ma anche una certa omogeneizzazione dei gusti. Anche qui si ha a che fare con un processo storico che se di naturale ha nulla, non rinviando alla natura degli esseri umani ma piuttosto al loro modo di stare insieme, ovvero alla dimensione sociale, che è un prodotto dei loro rapporti, tuttavia concorre a mutarne la natura, ossia il modo più intimo di essere, delle persone. Il fondamentalismo è spesso l’indisponibilità a riconoscere questo aspetto, rifugiandosi in un’idea tanto paradisiaca quanto falsa del passato dove, a darle credito, si sarebbe vissuti nel migliore dei mondi possibili. In realtà si tratta di una finzione bella e buona. Non è mai esistito un Eden in questa terra, se non altro perché il paradiso è prerogativa di un tempo (senza storia) e di luoghi (non fisici né geografici) a venire che non appartengono alla volontà dell’uomo. Chi li ha concretamente promessi ha storicamente causato lutti e disgrazie collettive. Ma nel pensiero fondamentalista l’idea che ci sia un ordine incorrotto da restaurare diventa il motore di ogni azione, l’ossessiva giustificazione di qualsiasi mezzo, poiché il fine sarebbe così alto, così elevato da permettere le peggiori nefandezze. In questo scorcio di inizio secolo ci troviamo dinanzi all’abominio del radicalismo islamico, che rappresenta la quintessenza di tale discorso. E tuttavia, senza stabilire improprie generalizzazioni, va ricordato che il secolo trascorso ha dato i natali a fenomeni molto moderni, quali i fascismi, il nazionalsocialismo e lo stalinismo, che hanno offerto forma compiuta a quello che è, nel medesimo tempo, un modo di essere della politica, un sistema di organizzazione della società ma anche un cliché mentale. Tutti molto solidi, destinati a ripetersi nel corso del tempo anche quando i regimi politici che li hanno espressi storicamente vengano meno. L’avviso al navigante, ossia ad ognuno di noi, è che il percorso è fatto di trappole. A volte si celano sotto l’aspetto seducente e intrigante di facili risposte alle difficoltà, che sembrano altrimenti insormontabili, della vita. Ma, se così mi è permesso esprimermi, coscienza dell’ebraismo, tra le altre cose, è il senso della complessità di questa. E del fatto che quest’ultima non è il prodotto di cammini rapidi e sicuri, ma di discontinuità e di rotture. Questo, quanto meno, su un piano storico. Non sto facendo facili solfeggi filosofici. Né mi sto sostituendo ai Maestri. (Che non sia mai!). Mi chiedo solo quale sia il nesso tra ebraismo e modernità. E lo trovo nel senso della differenza. Che combatte l’uniformità e, con essa. l’indifferenza. Gioco di parole? Scusate, ma è il Verbo che ci ha creati!
Claudio Vercelli
(16 giugno 2013)