La pira e il fuoco:
la crisi siriana

Oscurato dalla drammatica evoluzione dei fatti egiziani, ma come una pira dove il fuoco si alimenta da sé, il «conflitto armato non internazionale» siriano (così la definizione adottata dalla Croce rossa) prosegue, oramai da ben più di un anno, producendo la sua scia di innumerevoli vittime. Si reputa siano diverse decine di migliaia, forse più di centomila, dall’inizio delle ostilità. Una cifra approssimativa, non importa se per eccesso o per difetto, poiché le notizie che ci giungono dalle numerose aree di combattimento sono frammentarie e inesorabilmente filtrate dalle contrapposte macchine propagandistiche, quelle del regime e degli insorgenti. In Siria, è bene ricordare, dal 1962 vige lo stato di emergenza permanente, nel nome della guerra contro Israele. Da ciò sono derivate le sospensioni perduranti, e mai revocate, di fondamentali diversi diritti costituzionali. Ai morti e ai feriti vanno poi aggiunti i profughi, temporanei o permanenti, che hanno dovuto lasciare i loro luoghi di origine. All’interno del paese le stime parlano di più di un milione e mezzo di sfollati, su una popolazione complessiva di venti milioni di abitanti. Chi ha potuto si è recato in Libano (ma anche in Turchia, in Giordania e nel Kurdistan iracheno), un paese, quest’ultimo, che sta subendo pesantemente gli effetti della situazione che si è determinata a Damasco, essendone da sempre l’immediato retroterra. I costi economici, tra gli altri, si stanno infatti riversando su una situazione già di per sé fragile. In Siria ci troviamo peraltro dinanzi ad una condizione di stallo che non promette nulla di buono. Bashar al-Assad è troppo debole per potere pensare di riconquistare lo spazio perduto e il consenso bruciato ma è anche troppo forte per essere buttato giù con una qualche spallata, ancorché incisiva. I ribelli, dal canto loro, sono politicamente troppo fragili – e nettamente divisi da competizioni inconfessabili all’interno del Consiglio nazionale siriano, l’organo di rappresentanza comune – per credere di riuscire ad imporsi; non di meno, come è già avvenuto in altri scenari di guerra civile, dal Mediterraneo ai Balcani, sono oramai troppo radicati per essere annientati dai governativi. Con il trascorrere del tempo la crisi siriana assomiglia quindi sempre di più a una cancrena, che rischia di infettare la regione. Il conflitto ha assunto una piega confessionale, esacerbando i già forti motivi di attrito che stavano all’origine delle proteste popolari, poi degenerate nel confronto armato. La popolazione siriana è di fatto in ostaggio nella lotta tra le fazioni. Le opposte propagande funzionano da strumento di amplificazione delle paure e alimentano le tensioni. Il regime ammannisce ai cristiani e alle minoranze il verbo della vendetta jihadista, che si consumerebbe qualora i suoi nemici dovessero avere la meglio. Per il gruppo dirigente al potere il vero obiettivo degli insorti è di costituire uno Stato islamico radicale. Quel che è certo è che la lunga egemonia alauita (la minoranza al potere costituisce l’espressione di non più del 10 per cento della popolazione), il giorno in cui dovesse esaurirsi, comporterebbe un regolamento dei conti da parte della maggioranza sunnita, corrispondente ai tre quarti dell’intero paese. La quale, tuttavia, non è compattamente allineata con gli avversari del regime. Gli insorgenti hanno oramai trasferito l’asse polemico dalla critica contro l’autocrazia del sistema degli Assad alla lotta per la costruzione di un sistema islamista, contro i «crociati servi del regime», in ciò dando ragione agli spettri agitati da Damasco. Le motivazioni iniziali, assai più pluraliste, che invocavano libertà e partecipazione collettiva, si sono quindi completamente perse per strada. Ad esse si è sovrapposto il guazzabuglio di calcoli e appetiti dei diversi gruppi che sono entrati in gioco, prendendo sotto controllo la situazione e manipolandola a proprio beneficio. Siamo quindi molto lontani dal senso delle prime manifestazioni, quelle avviatesi nel marzo del 2011, da subito represse nel sangue ma accompagnate anche da qualche timido tentativo di liberalizzare il sistema delle comunicazioni del paese aprendo al web. Oggi Assad può ancora contare su un retroterra di paesi amici piuttosto solido. Soprattutto il terzetto composto dalla Cina, dalla Russia e dall’Iran. Malgrado l’embargo, imposto dall’Unione europea e dagli Stati Uniti, da Mosca, Pechino e Teheran infatti continuano ad arrivargli solidi sostegni. L’attracco di navi merci nei porti libanesi, con prodotti che poi prendono subito la via per Damasco, è quotidiano. Importazioni di petrolio per quasi quattrocento milioni di euro al mese sono poi garantite al clan degli Assad, a fronte di una capacità produttiva propria di non più di 130mila barili al giorno, corrispondente a meno di un terzo di quella d’anteguerra. Una parte consistente delle aree petrolifere è caduta sotto il controllo dei ribelli ma per la capitale, se la si vuole vedere resistere, è essenziale che sia garantito l’afflusso regolare e continuativo di energia. Gli insorgenti hanno cambiato pelle, in quest’ultimo anno. Sono sostenuti da un asse eterogeneo di paesi, tra i quali il Qatar, l’Arabia Saudita, la Giordania e la Turchia. Ognuno d’essi ha fatto i suoi calcoli, ritenendo di potere beneficiare da un rovesciamento del clan alauita. Ai gruppi laici o “moderati” che avevano composto le prime falangi dell’Esercito siriano libero, così come si è autodefinito il consesso dei rivoltosi, si sono progressivamente sostituite le unità di combattenti religiosi, i mujaheddin, provenienti da tutto il Medio Oriente (e non solo) e i tristi figuri che compongono le entità jihadiste associate a Jabhat al-Nusrat, filiale di al-Qaeda. Una sorta di coacervo di “partigiani di Allah”, i Katibas (le «unità combattenti»), composto perlopiù di algerini, libici, giordani, sauditi ma anche europei e maghrebini di varia provenienza, si è imposto sui miliziani originari. L’attuale rapporto è di 9 a 1. Ne è derivata un’assordante cacofonia, dove ci si pesta vicendevolmente i piedi. La propaganda dei ribelli è comunque oramai egemonizzata da questi gruppi, che battono ossessivamente la grancassa dell’islamismo radicale, riproponendo slogan violenti, triviali e truculenti, peraltro mai venuti meno, sulla scorta di una ideologia dell’intolleranza nei confronti degli «apostati» e degli «infedeli» che trova la sua giustificazione in un fanatismo tanto rozzo e manicheo quanto pervasivo. Il reclutamento dei combattenti avviene attraverso gli oramai abituali canali del jihadismo, consolidatisi dai primi anni Ottanta in poi (con la guerra iraniana contro l’Irak, l’insorgenza antisovietica in Afghanistan e, a seguire, i conflitti nei Balcani e la guerra civile in Algeria) ai quali si è aggiunto il web. Il tutto si celebra sotto le mentite spoglie di fondazioni caritatevoli, con il concorso di una parte dei paesi del Golfo, grandi registi di questo caos globale, dal quale confidando di continuare a trarre beneficio per sé. Non è peraltro indifferente l’apporto di singoli possidenti e uomini d’affari, che non rispondono a nessuna strategia di Stato ma a calcoli personali, pensando di potersi ritagliare spazi d’azione per i tempi a venire. Lo spazio per milizie mercenarie, al soldo non di altre nazioni ma di soggetti privati, dei «Lords of war», si sta evidentemente dilatando, all’interno di una logica che non rifiuta una qualche forma di “privatizzazione” della guerra. La posta in gioco della scommessa è la destrutturazione degli Stati nazionali in Medio Oriente: la Siria ne sarebbe un laboratorio, a seguito del quale si potrebbe poi procedere in altre aree di crisi, magari partendo dal «gigante malato», l’Egitto. Il venire meno delle giurisdizioni statali aprirebbe infatti spazi, altrimenti impensabili, per una sorta di feudalizzazione politica dell’intera area, cosa che piace a molti gruppi presenti sulla scena. Dopo di che una domanda si impone: perché la Siria è divenuta il ricettacolo di una potenziale guerra regionale? La transizione in Egitto che, come vediamo drammaticamente in questi giorni, è ben lontana dall’essersi conclusa, era tuttavia riuscita fino ad oggi ad evitare gli eccessi autodistruttivi che si stanno misurando a Damasco. Di fatto al Cairo, non troppo diversamente da quanto era avvenuto quasi venticinque anni fa nella Romania di Ceaucescu, il gruppo dirigente militare, in ciò sostenuto da una parte della élite civile, ha proceduto a neutralizzare Mubarak, cercando così di limitare i danni e di mantenere, entro i limiti del possibile, la tradizionale collocazione geopolitica del paese. La partita, come stiamo drammaticamente verificando in questi giorni, è ancora aperta, tanto più per l’azione fallimentare, dei Fratelli musulmani, e tuttavia lo sforzo di garantire una gestione controllata della transizione era stato, quanto meno in un primo tempo, intrapreso e incentivato. In Siria le cose sono andate da subito diversamente. I servizi segreti, al soldo del clan Assad, hanno potuto da subito operare senza vincoli di sorta, rispondendo alle proteste popolari (impedite formalmente da una legge del 1963, cancellata sotto la pressione collettiva solo nel 2011) con incredibile violenza e innescando una spirale di militarizzazione del confronto che ha portato ben presto dagli scontri tra manifestanti al confronto armato. Già i cosiddetti Shabiya (i «teppisti»), uomini in abiti borghesi ma armati – in realtà una milizia civile arruolata su base etnica e composta anche da mercenari – , che provocavano la folla per poi aggredirla, si erano da subito incaricati di compiere il «dirty job» per conto del regime: botte, sequestri, assassini e massacri. Il mosaico culturale, etnico e religioso del paese ha poi concorso ulteriormente a fratturare e a separare gruppi che se prima si osservavano con diffidenza ora si combattono apertamente. L’intervento di attori stranieri – che sono invece difettati fino ad oggi nel caso egiziano – ha poi concorso nell’esacerbare le tensioni. Per l’Iran, alleato del regime, il clan degli Assad costituisce dal 1979 un importante interlocutore nelle configurazioni di potere regionale. Nella guerra contro l’Irak degli anni Ottanta, mentre le monarchie petrolifere si erano schierate con Saddam Hussein, Damasco aveva infatti assunto una posizione ben diversa. Mantenuta poi nei due decenni successivi, nel momento del confronto con gli Stati Uniti e che, in tutta probabilità, proseguirà anche nel rapporto con il nuovo presidente iraniano Hassan Rohani. Il legame si è quindi tradotto in linee di credito preferenziali, in forniture di petrolio e nell’invio di preziosi consiglieri militari. Non di meno, il rapporto privilegiato con Hezbollah, il movimento radicale sciita presente nel sud del Libano e nella valle della Beeqa, si è mantenuto saldo. Fatto, va da sé, che ha ancora di più esasperato i rapporti con il mondo sunnita. Nelle settimane scorse, infatti, la conferenza cairota dedicata al destino dei «fratelli siriani», alla quale ha partecipato anche il presidente egiziano Mohamed Morsi, si è espressa per un appello al jihad. Al quale, hanno aderito anche sunniti moderati, come ad esempio i rappresentanti dell’università cairota al-Azhar. La Russia di Putin tiene duro sugli Assad per motivi geopolitici che rimandano alla sua rinnovata politica di potenza. Si tratta, al medesimo tempo, di un preciso calcolo strategico e di un riflesso condizionato che rinvia al tentativo di marginalizzazione nel Mediterraneo, subito da Mosca nei due decenni trascorsi, per parte dell’Occidente. La caduta del laico Bashir al-Assad sarebbe per la leadership russa un pessimo segnale, dovendo a sua volta confrontarsi con le turbolenze musulmane che agitano le stessa Federazione russa, a partire, ovviamente, dalla Cecenia. Laddove la propaganda capillare e insidiosa dei wahhabiti ha mietuto successi. Nel complesso, il falso equilibrio del terrore nel conflitto siriano è destinato, prima o poi, a risolversi in un senso piuttosto che in un altro. Lo stallo delle forze si consumerà. Ma a quel punto, il rischio è – piuttosto – che alla vittoria di una fazione sulle altre subentri un’estensione delle tensioni ai paesi limitrofi. Soprattutto se la crisi egiziana dovesse, nelle settimane a venire, assumere quelle proporzioni fino ad oggi sconosciute ma sempre più spesso temute come possibili.

Claudio Vercelli

(7 luglio 2013)