Nuova politica e speranze di pace

della pergolaL’anno 5773 non è stato uno dei peggiori nella storia di Israele e del popolo ebraico. Non ci sono state maggiori guerre o altre moríe, la demografia globale degli ebrei ha registrato una piccola crescita anche se esclusivamente grazie al motore Israele che di conseguenza incrementa ancora di un poco la propria posizione di principale componente del collettivo; il prodotto lordo per capite è ancora aumentato in Israele, e per gli ebrei della diaspora grazie alla migliorata posizione economica degli Stati Uniti e alla loro forte predominanza rispetto all’ebraismo diasporico è improbabile sia diminuito nonostante la stasi economica.
L’anno ora concluso semmai passerà alla storia per due cose e un’altra mezza cosa che sono avvenute. La prima e principale cosa notevole sono le elezioni in Israele del 22 gennaio scorso. Come si ricorderà si era andati anticipatamente alle urne in seguito all’impossibilità da parte dell’amministrazione uscente Netanyahu di approvare il bilancio statale. Ma questa impasse a sua volta rifletteva la maggiore sensibilità e assertività della piazza di fronte ai grandi problemi di struttura e di distribuzione delle risorse. In seguito alle grandi migrazioni del passato, la società israeliana è notoriamente molto articolata secondo gruppi religiosi, etno-culturali e socioeconomici.
Questo nel tempo ha creato una serie di differenziazioni nei confronti di diversi gruppi di popolazione, sia nei criteri legislativi, sia nell’applicazione della medesima legge che invece in teoria dovrebbe essere uguale per tutti. Si poteva giustificare questa gestione consociativa a scacchiera dello Stato durante i primi anni quando Israele, composto da persone in gran parte nate nei cento paesi della diaspora, costituiva un’economia povera e ampiamente sussidiata dall’esterno. Ma oggi, con due terzi degli ebrei israeliani e quasi tutti gli arabi israeliani nati nel paese, con l’Indice di Sviluppo Umano al sedicesimo posto su 186 paesi, e con un sistema di Hi-tech al vertice mondiale, Israele è un paese diverso, moderno e competitivo, non certo povero, e i provvedimenti di tutela degli anni ’50 appaiono sempre più anacronistici. Era logico attendersi l’ascesa al potere di una nuova generazione più giovane, socializzata nel paese, dunque in teoria più omogenea nei gusti, nelle percezioni, e nelle capacità decisionali. E questo si è puntualmente verificato quest’anno con un grande rimescolamento delle carte dei partiti e la creazione di una nuova e originale coalizione governativa basata sul triangolo Bibi (Likud più Israel Beitenu di Avigdor Liberman), Yair Lapid (Yesh Atid) e Naftali Bennett (Habayt Hayehudi).
In che misura il governo emergente apre una nuova fase nella società e nella politica israeliana e non è una prosecuzione delle vecchie abitudini del sistema dei partiti? Nei primi quattro mesi di governo ognuno degli attori principali ha ottenuto soddisfazione su almeno un punto fondamentale della propria piattaforma elettorale. Lapid porta a casa una legge che equipara almeno in teoria i diritti e i doveri dei Haredím per quanto riguarda l’obbligo del servizio militare e la partecipazione alla forza di lavoro. Liberman ottiene l’innalzamento della soglia di ammissione al parlamento al 4% dei voti (contro il debolissimo 2% attualmente in vigore) col risultato di imporre fusioni fra diversi partiti minori e una semplificazione nella prossima Knesset che toccherebbe in primo luogo i tre partiti arabi. E Bennett ottiene un atteggiamento più che leniente nella politica di espansione edilizia in Giudea e Samaria. Quanto a Tzipi Livni, la quarta ruota del carro, ottiene un ruolo nominalmente importante nelle trattative con i palestinesi (vedi oltre). Quanto al Likud di Bibi, la sua schiera di giovani parlamentari attivisti – rispetto ai quali lo stesso Netanyahu sembra un liberal di sinistra – ottiene pur sempre una ricca messe di incarichi ministeriali, parlamentari, pubblici e privati. Ma c’è una seconda faccia della medaglia. C’è chi dice che il Likud governa con questa coalizione ma fa l’occhiolino alla prossima, magari insieme ai Haredím e chissà, ai laburisti. Dunque su ispirazione del ministro della Difesa Moshe Yaelòn (candidato del Likud alla successione di Bibi), i provvedimenti relativi ai Haredím potrebbero slittare al 2020, mentre nelle elezioni per i nuovi rabbini capi il fronte governativo moderato- sionista ha subito una cocente sconfitta da parte dei Haredím di Yahadut Hatorah e Shas, ora formalmente all’opposizione, magari con la connivenza del Likud. La conclusione è che il vecchio manovrismo e il nuovo riformismo convivono nella conduzione della cosa pubblica israeliana. Del resto si possono riformare le leggi elettorali e avvicendare i governi ma non sostituire la società di un paese, con tutti i suoi pregi e difetti. E questo vale anche in Israele.
La seconda cosa notevole che è avvenuta quest’anno è la continuazione della “primavera araba”. Ossia la definitiva consacrazione di una gigantesca guerra civile intra-araba, con centinaia di migliaia di morti, rivoluzioni e controrivoluzioni, e i perenni e irrisolti conflitti fra islamismo e modernità, esercito e società civile, Sciiti e Sunniti. Destano oggi un sorriso di commiserazione i primi entusiasti commenti di un paio di anni fa, in cui fra l’altro si sollecitava ad alta voce un intervento attivo di Israele nel conflitto interno dei paesi circonvicini. Un tale intervento avrebbe avuto effetti disastrosi. Per Israele la sola posizione possibile è quella di un cauto attendismo finché si non consolideranno definitivamente i rapporti di forza nei paesi coinvolti. Qui non sorprende tanto l’impossibilità del mondo arabo di adeguarsi a un sistema occidentale di democrazia pluralista, tollerante della diversità, disponibile alla presenza dell’altro, rispettoso dell’alternanza del potere. Tutto ciò è ampiamente prevedibile in sede di analisi storica e dottrinaria. Quello che maggiormente preoccupa è semmai l’atteggiamento passivo e rinunciatario dei paesi europei, per i quali le quotidiane stragi, le prevaricazioni dei diritti civili e le miserabili condizioni delle popolazioni dirimpettaie non sembrano suscitare autentici moti di sdegno, o chiare affermazioni del credo democratico dell’Occidente, o tanto meno un’azione politica coordinata che dia un segno della volontà dell’occidente di sopravvivere in quanto occidente, e al contempo alleggerisca il tormento delle popolazioni in Medio Oriente e in Nord Africa.
In questo contesto turbolento, l’altra mezza cosa importante che è avvenuta in questo scorcio di 2013 è l’inizio di una trattativa fra Israele e Autorità palestinese promossa dal Segretario di Stato John Kerry. I palestinesi, che sono divenuti una delle oasi più tranquille nel contesto della torrida primavera araba, non hanno in questo momento un governo rappresentativo e quindi non hanno nulla da perdere ma solo qualcosa da guadagnare. Israele comincia a sentire i primi morsi dell’isolamento politico e del boicottaggio economico. Meglio dunque per Israele una trattativa obtorto collo che non un riconoscimento formale e definitivo della Palestina come stato a pieno diritto alla prossima assemblea delle Nazioni Unite. Cosa succederà in questi incontri è difficile prevedere e probabilmente nessuno lo sa. Per questo è meglio tenere basse le aspettative. E per questo il negoziato non è una cosa ma per ora solo una mezza cosa.
Buon anno.

Sergio Della Pergola, Pagine Ebraiche, settembre 2013

(28 agosto 2013)