Una riflessione sul mondo che cambia
Il grande antropologo, etnografo e pensatore Claude Lévi-Strauss, a conclusione di un’intervista rilasciata a “Le Monde” nel 2005 – dopo aver constatato come la globalizzazione stesse drasticamente livellando le diversità culturali ed etniche, come stesse rendendo le differenze tra gli uomini non più “esterne”, ma “interne” – dichiarava con profonda tristezza:
“Viviamo in un mondo a cui non appartengo più. Quello che ho conosciuto, che ho amato, aveva due miliardi e mezzo di abitanti. Il mondo attuale ne conta sei miliardi. Non è più il mio.”
Certamente l’accelerazione esponenziale delle tecnologie ha acuito i cambiamenti che gli uomini devono subire nel corso di una vita sempre più lunga; certamente, invecchiando, gli umani vedono letteralmente snaturarsi il mondo a cui erano abituati. Ed è anche comprensibile che chi era abituato a grandi spazi si senta a disagio in un posto affollato. Tuttavia, qualcosa non mi convince nelle parole di Lévi-Strauss. Il mondo che amava e rimpiangeva l’autore di “Tristi tropici” non era solo il mondo delle intonse tribù brasiliane e delle meravigliose, silenti foreste amazzoniche, ma era anche e precisamente il mondo che lo aveva costretto a fuggire dalle leggi razziali e dal nazismo, la “sua” epoca era anche quella di Treblinka e di Hiroshima. Riflettendo, forse, nessuno di noi appartiene mai fino in fondo a un “mondo” o a un’epoca, bensì appartiene solo agli affetti e ai valori più intimi che passano indenni attraverso le epoche, che sono il solo paravento disponibile per affrontare con dignità il senso di inevitabile estraneità che offre la vita. Forse, non c’è proprio niente di male se le differenze divengono “interne” (direi meglio “interiori”). Forse, sarebbe bene non farsi mai idoli neppure delle epoche, neppure di quei tempi che, solo per caso, hanno accompagnato la nostra (magari gloriosa) giovinezza. Forse, però, a novant’anni cambierò idea…
Laura Salmon, slavista
(22 novembre 2013)