Progetti newyorkesi

finkIn treno, tornando da New York a Philadelphia dove mi aspettano i colleghi di Lucidarium, ripenso alla riunione alla quale ho appena partecipato, e a causa della quale mi sono preso questa pausa newyorkese dal tour, fra la tappa di Seattle e quella di Washington DC. Tralascio nomi e dettagli perché si parla di un progetto in fase di approvazione; mi sono trovato al centro di un incontro fra due parti, come partecipante interessato ma un po’ defilato. Era rappresentata una grande istituzione ebraica americana che sta lavorando alla raccolta fondi per un progetto internazionale al quale lavora da più di un anno; e una controparte, nella cui enorme sede ci trovavamo, una grande istituzione ebraica anche quella, che auspicabilmente sarà fra i finanziatori del progetto. Io, nella mia veste questa volta non di musicista ma di rappresentante della Comunità Ebraica di Firenze, c’entro perché parte del progetto potrebbe svolgersi a Firenze.
Per prima cosa resto colpito dall’atteggiamento che entrambi le parti hanno nei confronti del progetto. Serio ma franco, vagliandone potenzialità e possibili criticità, ammesse tranquillamente da parte dei proponenti: il tutto visto con occhio severo ma costruttivo da parte dei possibili finanziatori – tutti davano per scontato che ammettere anche i rischi di un progetto non ne sminuisce la validità, e che è meglio essere cauti in fase di proposta per poi magari ottenere un successo maggiore di quanto preventivato, piuttosto che promettere qualcosa che si rischia di non mantenere. Devo ammettere, un atteggiamento un po’ diverso da quanto si vede spesso dalle nostre parti.
Poi con mia grande sorpresa vengo coinvolto nella discussione perché i potenziali finanziatori erano molto interessati alla potenziale ricaduta del progetto anche sugli ebrei fiorentini. E la cosa stupisce – a confrontarsi, qui, sono due grandi strutture americane che parlano di un progetto rivolto a ebrei americani, anche si svolgerà in parte all’estero; ma si preoccupano anche attivamente dell’impatto che il progetto potrà avere su una comunità lontana che non conoscono, che non li conosce e, nel caso dei finanziatori, probabilmente non li conoscerà neanche in futuro; insomma una comunità dalla quale non potranno in ogni caso avere alcun beneficio in termini di sostegno o di consenso o di semplice riconoscenza.
Ma ciò che veramente mi fa misurare la distanza dall’Europa è il rendermi conto che in quella stanza, a parlare di un progetto ambizioso, di cifre dell’ordine di varie centinaia di migliaia di dollari, erano oltre a me due uomini – fra cui un rabbino – e due donne, persone competenti in posizioni di potere o comunque attivamente impegnate a gestire grandi organizzazioni. Cosa c’era di strano? Niente, tranne che, tolto me, l’età media era ampiamente sotto i trent’anni.
Pensando che c’è davvero poca speranza per la vecchia Italia, ebraica e non, sono tornato a Philadelphia, in partenza per la National Gallery a Washington DC a fare il mio spettacolo e a cantare fra l’altro “le età dell’uomo” – un poema del ‘500 che in un codice si trova in due versioni, entrambe scritte in caratteri ebraici: una in antico yiddish, una la traduzione in un dialetto ebraico italiano; e a interpretare di nuovo il bambino, il ragazzo diciottenne, l’uomo maturo e il vecchio “decrepito” (così mi hanno descritto, mentre interpreto l’uomo ormai centenario, in una recensione di cui vado molto fiero al concerto di Seattle: il vecchio decrepito che, pelato come un topo, cade a terra e muore come una casa in rovina.
(segue)

Enrico Fink
(26 novembre 2013)