L’intervento di Luca Zevi – Quale progetto per la Memoria
Il “giallo” che, a partire dalla fine di luglio, ha caratterizzato la vicenda del Museo Nazionale della Shoah di Roma si è concluso con il migliore degli esiti, attraverso una composizione fra due posizioni che sembravano inconciliabili e che solo grazie alla disponibilità e all’impegno del Comune di Roma hanno potuto trovare un momento alto di sintesi: il progetto del Museo della Shoah nell’area di Villa Torlonia – frutto di un impegno decennale congiunto di Regione Lazio, Provincia e Comune di Roma, Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Comunità di Roma e Associazione Figli della Shoah e giunto alla fase di aggiudicazione della gara d’appalto per la costruzione – verrà realizzato nei tempi più rapidi possibili; la richiesta di una sede nella quale far vivere fin da subito questa realtà museale in fieri, avanzata da alcuni ex-deportati, viene pienamente soddisfatta dalla concessione della Palazzina dei Vallati in piazza 16 ottobre.
Un “lieto fine”, che consente di tornare a ragionare serenamente sul Museo della Shoah anche cercando di far luce sull’oggetto della contesa estiva, oscurato dallo scontro fra argomentazioni contrapposte.
In realtà l’alternativa fra la sede prestabilita – un lotto limitrofo a Villa Torlonia – e le alternative ventilate – un centro commerciale all’EUR, soprattutto – non è mai esistita.
Nel primo caso, infatti, ci troviamo di fronte a un’area acquistata dal Comune attraverso una permuta immobiliare per un valore pari a 16,300 milioni di euro, a un progetto definitivo regolarmente approvato dal Comune di Roma e legittimato da un’apposita Variante Urbanistica che ha destinato il lotto di terreno interessato esclusivamente a “servizi per il Museo della Shoah”; a un mutuo erogato dalla Cassa Depositi e Prestiti al Comune di Roma per un valore corrispondente all’intero ammontare delle spese di costruzione previste dal progetto; alla concessione di una deroga al Patto di Stabilità che ha reso da anni immediatamente disponibile detto finanziamento; a una Gara di Appalto Integrato alla quale hanno partecipato 24 gruppi imprenditoriali, la valutazione delle cui proposte tecniche da parte della Giuria si è conclusa nel maggio scorso. Nel secondo caso, la presunta sede “alternativa”, solo proposte improvvisate, che di sicuro avrebbero fatto perdere tutto quanto era stato conquistato in campo progettuale, amministrativo e finanziario, per nuove collocazioni quantomeno incerte e discutibili che, di sicuro, avrebbero vanificato un lavoro collettivo quasi decennale. Come si è potuti arrivare a questa falsa alternativa? La prima risposta risiede nella perdurante scarsa educazione degli italiani alla conoscenza e al rispetto delle regole, che ha condotto a ipotesi “fantasiose” del tutto impraticabili senza incorrere in pesanti violazioni certamente sanzionabili a norma di legge.
Ma c’è una seconda risposta, che ci deve interessare intimamente oggi – ovvero a partire dal momento in cui il salvataggio del Museo Nazionale della Shoah Italiana è stato faticosamente assicurato – e che è di natura squisitamente culturale: la sottovalutazione pressochè totale del ruolo che è chiamato a svolgere lo spazio architettonico che ospiterà il Museo nel processo di elaborazione della storia e della Memoria della Shoah. Una sottovalutazione che ha fatto pronunciare disinvoltamente frasi come “l’importante è il contenuto, l’edificio è indifferente”, quando trent’anni di elaborazione progettuale proprio in questo campo – da Washington a Berlino a Gerusalemme, per citare solo i casi eclatanti – hanno dimostrato in maniera inoppugnabile la complementarietà inevitabile fra messaggio espositivo e organismo architettonico che non soltanto lo ospita, ma vi contribuisce in maniera decisiva.
Questa seconda constatazione rende dunque opportuno cercare di penetrare alcune scelte di fondo del progetto che finalmente si avvia a realizzazione.
Una scatola nera – i cui “mattoni” sono i nomi dei deportati romani, che dialogano con quelli degli altri deportati italiani apposti sulle pareti perimetrali di contenimento dell’area del Museo – sospesa sulle nostre teste a sottolineare come la Shoah rappresenti anzitutto un suicidio culturale della civiltà europea che ancora incombe minacciosamente sul presente.
Un percorso architettonico che, pur sviluppandosi in verticale a causa dell’esiguità del lotto di terreno e dei limiti di edificabilità fuori terra, avanza in maniera continua, eliminando qualunque barriera architettonica, per significare fisicamente la contrapposizione alla cultura totalitaria rappresentata dal nazismo, tutta tesa a sottolineare le differenze fra gli individui in funzione della sopraffazione di tutte le minoranze – fisiche o etniche – da parte della stirpe dominante. Nel Museo della Shoah le stesse diversità verranno valorizzate non attraverso la discriminazione ma, al contrario, un confronto reso possibile dalle “pari opportunità” nella fruizione del racconto espositivo per abili e diversamente abili, anziani e bambini, donne e uomini, etnie maggioritarie e minoritarie.
Un’avventura che prenderà le mosse già dall’ingresso da Villa Torlonia lungo il “percorso dei giusti”, che condurrà all’ingresso del Museo demistificando lo stereotipo degli “italiani brava gente”, che presuntamente non reagirono alle leggi razziste del ’38 perché impediti da un regime totalitario. E invece reagire si poteva in molti modi – dalla disobbedienza civile alla lotta armata – e l’esempio di chi lo fece e salvò delle vite a rischio della vita costituirà un fulgido esempio per i giovani che visiteranno il Museo nel periodo formativo della loro esistenza.
Luca Zevi
Pagine Ebraiche novembre 2014 (21 ottobre 2014)