Duccio Levi Mortera (1938 – 2014)

duccio levi morteraEra stato insignito in Campidoglio del Premio Simpatia l’8 giugno 2011, lui, il poeta contemporaneo della Roma ebraica, Duccio Levi Mortera, e per l’occasione, con il suo solito spirito bonariamente scanzonato, aveva composto un sonetto in dialetto romanesco in cui, rivolgendosi ai romani tutti, si era proclamato come sempre con orgoglio per quello che era, “So’ giudio”. Si domandava anche se sarebbe arrivato fino ai centovent’anni, come desiderava: “Mi avete dato sto premio Simpatia / perché faccio soride un po’ de gente. / Me piace sta co’ tutti in allegria / musi lunghi no, manco pe gnente. // Io nun me l’aspettavo, in fede mia / er core che me batte nun se sente? / Premiato da siffatta compagnia / è riconoscimento più eloquente. // Io so’ romano docche, quello vero, / poi se vede dar nome, so’ giudio. / Se vojo campa’ a lungo, armeno spero // che dite ariverò a centovent’anni? / Io ce vorei arivà, signore Iddio. / Co’ la bona salute e senza affanni”. Ma non è arrivato a quell’età il grande Pasquino della Roma ebraica contemporanea, scomparso dopo una malattia sabato 25 ottobre di quest’anno, circondato dall’affetto di centinaia di amici che si sono stretti intorno alla famiglia – la moglie Gigliola Modigliani, il figlio Emanuele, le sorelle Piera ed Adriana e famigliari tutti – nelle varie cerimonie di addio al cimitero ebraico ed in casa, e nel commovente Limud svoltosi sabato 13 dicembre al Pitigliani, in chiusura di Shabbat.
Duccio, nato Leonardo nel 1938 da Eugenio Levi Mortera e Wanda Supino (la sorridente maestra di bambini ebrei romani cacciati dalle scuole nel 1938 all’Umberto I e poi insegnante di varie generazioni di studenti), come compositore di sonetti era un “figlio d’arte”, che aveva portato avanti una tradizione di scrittura poetica in dialetto romanesco che era già del padre (si veda la “Raccolta di sonetti romaneschi” di Eugenio Levi Mortera, Roma, 2003). Anche i sonetti di Duccio usciranno postumi. Lui era l’ironico cantastorie della Comunità ebraica romana, l’acuto osservatore di un mondo che descriveva con affetto, come di chi sa come vanno le cose del mondo. Amava declamare i suoi versi agli amici e anche ad un pubblico di sconosciuti, in qualunque occasione, pubblica o privata, e recitava con passione teatrale, divertendosi nel comunicare agli altri quel flusso di notazioni e pensieri che in lui sgorgavano naturalmente in versi. Rispetto al padre scrittore di sonetti in romanesco, aveva arricchito la tradizione famigliare, aggiungendovi anche frequenti incursioni nella parlata giudaico-romanesca, insaporendo dunque il linguaggio con il gusto della romanità ebraica. Era un osservatore arguto di quanto lo circondava. Da anni si dedicava anche al canto, facendo parte del Coro ebraico-romano Ha-Kol, istituzione in cui apportava pure il contributo della sua bonomia pacificatrice e della sua grande simpatia. Per la malattia, negli ultimi tempi non aveva potuto partecipare ad alcune riprese che li vedranno protagonisti nelle vesti di barbuti antichi ebrei romani in una scena di un film, e questo era per lui motivo di dispiacere. Ma fino alla fine ha mantenuto il suo gusto per la battuta e il suo spirito arguto, come avevamo potuto constatare anche noi amici andandolo a trovare, e come testimoniato dal figlio che ha assistito con la madre Gigliola ai suoi ultimi istanti di vita.
Nel partecipatissimo Limud di sabato sera 13 dicembre 2014, hanno parlato Micaela Procaccia e Benedetto Carucci, e il figlio di Duccio, Emanuele Levi Mortera, professore di storia e filosofia al Liceo ebraico di Roma “Renzo Levi”, che ha amorevolmente organizzato e diretto l’incontro in ricordo del padre. Sono poi intervenuti liberamente altri famigliari ed amici presenti: Serena Modigliani Nacamulli, Arnaldo Coen, Marco Di Porto, Maurizio Fornari, Lello Dell’Ariccia, Judith Di Porto, Riccardo Di Castro e Sergio Di Veroli: chi rammentando i primi “Shofar-hamorim” dei campeggi e del circolo giovanile Kadima, chi la funzione di Duccio nel Coro, chi la sua insostituibilità come persona, ognuno di loro apportando altre notazioni e ricordi commossi. Nel suo intervento introduttivo, Emanuele ha tratteggiato alcuni aspetti privati della personalità paterna, la sua onestà non solo professionale, la sua generosità (che anch’io posso confermare, se ripenso a quella volta in cui, l’anno scorso, unico tra le persone contattate, si offrì di contribuire ad una colletta per l’acquisto di un quadro ispirato ad un caso storico di ingiustizia antisemita, da donare al Museo ebraico di Roma), il suo stupore di fronte al mondo la cui osservazione è riflessa nei sonetti, e i valori civili che gli erano stati da lui comunicati e che ora Emanuele cerca di trasmettere ai suoi allievi. Micaela Procaccia, cugina di Duccio assai più giovane di lui, ha dapprima evocato alcuni ricordi di infanzia, per poi inoltrarsi sul terreno che li ha accumunati da adulti, quello del giudaico-romanesco, frequentato da lei come studiosa di Crescenzo Del Monte e da lui come inventore creativo di nuova poesia. È stata una splendida lezione, in cui sono stati tratteggiati l’evoluzione e il ruolo di questa lingua quasi ‘sacra’ del mondo ebraico romano: e il Limud, come giusto, è divenuto un vero momento di studio. Infine, Benedetto Carucci ha letto un delizioso sonetto di Duccio intitolato “La Consulta”, scherzoso ritratto di vita comunitaria, e poi, rispondendo ad alcune perplessità esposte da Emanuele riguardo ad una certa apparente acquiescenza del padre di fronte alla malattia, ha cercato di offrirne una risposta attraverso una interpretazione del suo sonetto “La sorte”: poesia che, invero, rivela sì uno spirito di profonda religiosità, ma anche un animo non passivamente fideistico e soprattutto un grande desiderio di vita. Il senso profondo del testo, infatti, è quello che tutti gli uomini, come scolaretti impauriti, si nascondono dietro al banco quando il Signore si domanda: “Vedemo un po’ a chi tocca?”, nella speranza che per loro non sia giunto il momento dell’ultimo inevitabile appello divino. La speranza di tutti, insomma, è quella di poter continuare a vivere… Ma questo lo si desidera che avvenga, come detto da Duccio in occasione del Premio Simpatia: “Co’ la bona salute e senza affanni.” Invece, il Padreterno ha visto che la buona salute e la mancanza di affanni ormai mancavano al poeta cantore della Roma ebraica dei nostri giorni, e perciò lo ha richiamato a sé, per non farlo soffrire. Lasciando un grande vuoto a tutti coloro che lo hanno incontrato, che ora sentono la mancanza di lui, delle sue risate e del suo sorriso. E tuttavia lo spirito di osservazione e le scritture di Duccio Levi Mortera, se raccolte come meritano, potranno davvero entrare nella storia di Roma e in quella della letteratura ebraico-romano ed italiana, raccontando con arguzia alcuni aspetti del nostro mondo e fornendo ispirazione vitale anche alle generazioni future.

(Nell’immagine, Duccio Levi Mortera con gli amici del coro Ha Kol Lello Dell’Ariccia e Marco Di Porto).

Elèna Mortara

(15 dicembre 2014)