Oscar 2015 Quattro statuette per Anderson, ma resta l’amaro in bocca
Tutto è andato come doveva andare. Dicono. Birdman, il film sull’attore in crisi incastrato nel ruolo di un supereroe vestito da pennuto (Birdman appunto) ha vinto e stravinto: Oscar per il miglior film, la migliore regia di Alejandro Gonzalez Inarritu, migliore sceneggiatura originale e migliore fotografia. A suscitare perplessità è però il destino di Grand Budapest Hotel di Wes Anderson, il coloratissimo lungometraggio ispirato ai libri dello scrittore ebreo viennese Stefan Zweig che non vince dunque come miglior film o regia. Ambientato nella ridente Repubblica di Zubrowka e dopo essere stato protagonista al Festival di Berlino, conquista comunque ben quattro statuette per la colonna sonora, il trucco, la scenografia e soprattutto per i costumi della italianissima Milena Canonero che degli Oscar è una veterana (ha già vinto con Marie Antoniette, Momenti di Gloria e Barry Lyndon).
L’influenza della letteratura Zweig è stata fondamentale per la riuscita del film, Anderson ha infatti dichiarato di aver mescolato diverse opere a firma dell’autore opere come “Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo” (ed. Mondadori), “L’impazienza del cuore” (ed. Elliot) e il racconto “Ventiquattro ore nel corpo di una donna” (ed. Garzanti) per ricreare l’ambientazione sognante di un tempo perduto per sempre. Nato a Vienna in una famiglia ebraica abbiente (padre industriale, madre proveniente da una famiglia di banchieri) Stefan Zweig è infatti l’incarnazione perfetta di un prolifico impero che fa brillare i suoi ultimi bagliori prima di spegnersi per sempre. Bagliori perfettamente ricreati nella vicenda del concierge che scappa accompagnato dal fidato assistente Zero.
L’Oscar come migliore sceneggiatura non originale va poi a Graham Moore, la cui firma è sul copione di The imitation game, il film dedicato al matematico Alan Turing. Daniela Gross nella sua apprezzata rubrica settimanale di cinema J-Ciak ce lo aveva già presentato, svelando il suo rapporto con l’ebraismo: “Nato a Chicago, Graham Moore cresce con la madre Susan Sher, avvocato che lavora con il presidente Obama come assistente particolare, presiede poi lo staff della First Lady ed è incaricata dalla Casa bianca di tenere i contatti con la Comunità ebraica. Un legame, quello con il mondo ebraico, molto sentito anche dal figlio. ‘L’ebraismo è diventato per me sempre più importante ed è sempre più un elemento di identità sociale. I miei nonni sono morti pochi anni fa. Ero molto attaccato a loro e per la loro generazione l’identità ebraica era fondamentale. Quando sono scomparsi, l’idea che i custodi di questa tradizione eravamo divenuti io e mia madre è risultata molto chiara e importante’, ha dichiarato in una recente intervista al Jewish Journal”.
Dopo la delusione per la mancata candidatura dell’israeliano Ghett di Ronit e Shlomi Elkabetz come migliore film straniero è il polacco Ida a trionfare. Un lungometraggio in cui, spiega Gross, il regista Pawel Pawlikoswki dipana il dramma di una giovane donna che, mentre si accinge a prendere i voti, scopre che i suoi genitori erano ebrei e sono morti durante l’occupazione nazista”. La vicenda ruota intorno a due donne: Anna-Ida che scopre la sua identità grazie alla zia Wanda, con la quale intraprenderà un viaggio. Un ritorno all’infanzia quello del regista che, come racconta il Forward, “ha lasciato la Polonia a 14 anni ma è come se non l’avesse mai abbandonata” e che riguardo alla storia di Ida racconta: “Ho cercato di evitare di fare un film sulla Shoah o sulle colpe della Polonia per concentrarmi sulla vicenda di due protagoniste ben precise. Più che un film sulla religione, mi sono interrogato sulla fede”.
Infine Patricia Arquette (papà convertito all’Islam, madre ebrea e fratelli tutti nel mondo del cinema) torna direttamente dai fasti degli anni ’90 e vince con Boyhood come miglior attrice non protagonista.
Rachel Silvera, twitter @rsilveramoked
(Nell’immagine Milena Canonero che riceve l’Oscar come costumista di Grand Budapest Hotel)
(23 febbraio 2015)