Uno spazio di convivenza
Tra vecchie e nuove esclusioni, nel grande calderone della convivenza tra culture differenti, il Ghetto di Roma può rappresentare un caso di studio. È partito da questo assioma il convegno organizzato nella giornata di ieri dal Centro Cardinal Bea per gli Studi Giudaici della Pontificia Università Gregoriana insieme al Centro di ricerca sull’educazione interculturale e la formazione allo sviluppo dell’Università di Roma. Chiamati a dare un contributo Anna Foa, Angela Groppi, Carlo Felice Casula, Marco Catarci e Massimo Gargiulo. Ad aprire i lavori gli interventi di padre Philipp G. Renczes, direttore del Centro Cardinal Bea, e di Massimiliano Fioucci, direttore del centro di Roma Tre.
Angela Groppi, professoressa di storia moderna all’Università di Roma La Sapienza e curatrice del volume “Gli abitanti del ghetto di Roma” (Viella editore), ha illustrato le difficoltà a conoscere la reale popolazione del ghetto fino al 1733, quando fu fatto il primo censimento e si contarono poco più di 4 mila ebrei. A detta della Groppi, la vicenda del Ghetto “sarebbe vista troppo spesso esclusivamente come una storia di discriminazione” mentre non ci si renderebbe conto del fatto che gli ebrei “fossero intensamente parte della cittadinanza”.
Ad offrire una panoramica del ghetto sotto l’occupazione nazifascista la storica Anna Foa, insegnante alla Pontificia Università Gregoriana e autrice del libro “Portico d’Ottavia n. 13. Una casa del ghetto nel lungo inverno del ’43” (Laterza), che ne ha ripercorso i tragici avvenimenti ma anche sottolineato la distinzione tra ghetti dei papi, come appunto quello romano, e ghetti nazisti, come ad esempio quelli dell’Europa dell’Est. “Nel primo caso – ha affermato la Foa – l’esigenza era di controllo e a prevalere era la vita, mentre nel secondo caso lo scopo era l’eliminazione e a prevalere fu la morte”. Il ghetto di Roma – ha proseguito la storica – ha vissuto una sovrapposizione di questi due fenomeni, e questo ha fatto sì che quella zona assumesse una fortissima carica simbolica, che fa sì tra le altre cose che nonostante sia stato liberato nella metà dell’800 “essa venga ancora oggi chiamata ghetto”.
Carlo Felice Casula, professore di storia contemporanea all’Università di Roma Tre, ha concluso la prima parte del convegno spiegando il significato del termine “genocidio” e passando in rassegna tutte le uccisioni avvenute nel corso del ‘900 classificate ufficialmente come tali dalle Nazioni Unite. “Nella definizione di ‘genocidio’ – ha evidenziato – si parla di ‘persone umane’ e non di ‘cittadini’, in quanto le vicende tragiche connesse al genocidio non riguardano soltanto adulti ma anche bambini, e questo ne pone la crudeltà al di là dell’immaginazione”.
Una seconda parte del convegno è stata invece dedicata all’educazione e alla formazione. Marco Catarci, professore di pedagogia all’Università di Roma Tre, si è soffermato sul concetto di educazione interculturale, individuandovi un’occasione per considerare ogni allievo nella sua globalità e per restituire all’istruzione, come bene in sé e destinato a tutti, il suo potere di rendere qualsiasi soggetto capace di autodeterminarsi.
Sulle modalità in cui il sistema formativo italiano veicola la conoscenza dell’ebraismo si è infine concentrato Massimo Gargiulo, professore alla Pontificia Università Gregoriana ma anche di latino e greco nei licei specializzato in ebraistica, che ha esaminato le occasioni in cui uno studente entra in contatto con la storia degli ebrei durante tutto il ciclo scolastico e universitario, concludendo il convegno con una rassegna di alcuni libri di testo nei punti dedicati all’argomento.
Francesca Matalon
(20 marzo 2015)