Luca Rastello (1961 – 2015)

Luca RastelloGiornalista, scrittore, apprezzato per la sua voce libera, Luca Rastello è stato direttore dell’Indice, inviato di Diario e direttore di Narcomafie, prima di iniziare a scrivere per l’Espresso, e per le redazioni di Milano e di Torino di Repubblica. Dalla passione per la letteratura dei paesi dell’Est europeo, che lo portò a collaborare con Linea d’Ombra, era arrivato all’interesse per la guerra fratricida nella ex Jugoslavia, che seguì come reporter ma anche come cooperativista. Da quell’esperienza trasse “La guerra in casa” (Einaudi, 1998), il saggio che fece conoscere a molti la sua intelligenza e il suo rigore morale. Grande era anche la sua conoscenza del narcotraffico – “Io sono il mercato” pubblicato da Chiarelettere – e dei diritti dei rfugiati – “La frontiera addosso” Laterza – mentre insieme ad Andrea De Benedetti ha scritto “Binario Morto”, pubblicato da Chiarelettere, che Goffredo Fofi ha descritto come “il libro più onesto tra quanti hanno cercato di raccontare la risposta dei no Tav”. E proprio Andrea De Benedetti ha commentato, in un saluto a Rastello: “So che qualcuno scriverà che hai perso la battaglia contro il cancro, e io invece ci tengo molto a far sapere in giro che quella battaglia tu l’hai stravinta. Sei mesi di vita, ti avevano dato. Tu hai detto: ah sì? e hai tirato dritto per quasi dieci anni. Dieci anni in cui hai amato, odiato, viaggiato, scritto libri fondamentali, bestemmiato, imparato, mangiato, litigato, insegnato, in una parola vissuto molto più e molto meglio di quanto si concede mediamente di vivere una persona mediamente sana in ottant’anni di esistenza mediamente inutile.”
Ai saggi si erano aggiunti due romanzi: “Piove all’insù” (Bollati Boringhieri) e “I buoni”, di nuovo per Chiarelettere, a cui la storica Anna Bravo ha dedicato sul numero di dicembre 2014 di Pagine Ebraiche un lungo testo, che qui riproponiamo.
a.t.

I Buoni, spacciatori di futuro

Sono passati due decenni da quando Jeremy Rifkin scriveva che il terzo settore (onlus e cooperative di utilità sociale) avrebbe guadagnato un ruolo decisivo nell’economia globalizzata, e introdotto un nuovo modo di lavorare fondato sull’empatia e sulla condivisione. La profezia si è avverata solo per metà: oggi l’universo non profit è imponente (negli Usa dal 2000 al 2010 l’incremento ha toccato il 41%), ma non lo è altrettanto l’innovazione nei rapporti interni e con l’esterno. Alcune onlus – una sigla che ormai abbraccia realtà molto diverse fra loro – si sono trasformate in strutture pletoriche, verticistiche, burocratizzate, in cui gli utenti/assistiti sono ridotti a vittime passive e rischiano di restare a lungo tali, mentre i costi per mantenere l’apparato possono superare quelli destinati all’aiuto – il che non impedisce a queste centrali del Bene di presentarsi come il rimedio per eccellenza ai mali del mondo. Della situazione italiana trattano tre libri importanti, Contro il non profit di Giovanni Moro, L’industria della carità di Valentina Furlanetto, e I Buoni di Luca Rastello, autore di preziose inchieste sulle guerre nei Balcani e sulla Tav, e di un bellissimo romanzo sugli anni settanta, Piove all’insù. È un romanzo anche I Buoni, su cui si è subito creata una polarizzazione netta dei giudizi. Pamphlet maligno e diffamatorio, per alcuni, che nasconderebbe sotto la forma romanzo un attacco intollerabile a una vasta e famosa associazione e al suo leader, massimo esponente del non profit italiano. Per altri, testo dalla scrittura sapiente, che mette in scena con cura, coraggio, efficacia, un caso limite di Bene senza bontà; quelli del titolo sono i Buoni professionisti, oblativi, sacrificali, rispettabili – e profondamente ipocriti. Il racconto parte dal sottosuolo di una città dell’Est Europa, dai bambini e ragazzi che vivono nei cunicoli delle fogne inalando colla e contagiandosi di Aids, pestandosi, aiutandosi. Non c’è ombra di paternalismo nelle parole di Rastello, nessuna indulgenza all’ideologia dei buon diseredato, affetti e cura reciproca sono esili spiragli nella desolazione e nella lotta fra clan. Il racconto prosegue a Torino, dove la ragazza esteuropea Aza viene accolta dall’associazione “In punta di piedi” (detta “I piedi”) e dal suo leader don Silvano. Di qui si snodano la seconda e terza parte del romanzo.
Guardata attraverso gli occhi della ex ragazzina del sottosuolo, “In punta di piedi” ha molti meriti e attrattive. Quando Aza incontra per la prima volta don Silvano, vede un uomo mite e ieratico, che arriva a farle visita con birra e pizze come un vecchio amico, accompagnato dalla scorta adibita alla sua protezione – in questo caso anche al trasporto vettovaglie. Quando entra nell’organizzazione e il rapporto con il leader diventa quasi quotidiano, si butta nel lavoro con gratitudine appassionata e con un talento manageriale che la porta ai vertici dello staff. E da quei vertici scopre il volto deforme del Bene: illegalità, violenze, cinismo, licenziamenti mascherati, boss dell’apparato che seducono ragazzine e dirottano fondi dell’associazione su loro obiettivi personali. Scopre il crudele turnover dei collaboratori/funzionari, simboleggiato dalle pareti di cartongesso degli uffici, barriere mobili che segnalano attraverso gli spazi ampliati o ristretti la geografia dei piccoli e meno piccoli poteri. Vede quanto poco basti per cadere in disgrazia, o per essere buttati fuori: nel nulla – “In punta di piedi” assomiglia alle istituzioni totali studiate da Goffman, fondate su un sistema di punizioni e privilegi, su un funzionariato complice, e sulla capacità di presentarsi a chi vive nella loro orbita come il solo mondo reale.
La tutt’altro che sprovveduta Aza capisce, ma esegue, accetta, tollera. Perché l’associazione non le ha dato solo un lavoro e un ruolo, le ha dato in Silvano un padre, l’unico che abbia mai conosciuto. Ad altri, “In punta di piedi” ha fatto balenare la speranza di una nuova nascita, di un lavoro desiderabile, di un’accettazione senza infingimenti. Don Silvano è uno spacciatore di futuro. Lo è anche in un altro senso. È vero che l’associazione favorisce carriere, garantisce status sociale, procura appalti e contributi; ma fa di più. Lo spiega l’ambiguo, rassegnato Andrea, un tempo volontario ora funzionario. Se tanti riversano su Silvano amore e gratitudine, è perché “abbiamo bisogno di convivere con il male, fingendo di combatterlo”, e “lui lo fa al posto nostro”, ci permette di continuare a occuparci del nostro particolare sentendoci dalla parte del Bene – o quanto meno di un futuro migliore. Quella di Andrea è una lucidità rara, che forse non lo porterà in vetta all’organizzazione, ma che gli consente di opporre al culto della legalità tanto caro ai Piedi la semplice argomentazione che anche gli aguzzini del III Reich agivano secondo la legge, criminale ma sancita nei codici.
Scurati ha notato che nei Buoni manca una narrazione del bene: “Se Rastello ne avesse parlato, avrebbe scritto un altro Delitto e castigo”. È così, il bene è sequestrato dai Buoni professionali, mentre la storia umana è invece disseminata di un bene dilettante, che ha salvato vite senza ergersi a modello. Ma nei Buoni c’è spazio per la defezione. Per esempio: Aza si dilegua senza spiegazioni, una funzionaria sceglie gli affetti invece che la fedeltà all’apparato, un ragazzo si ribella al lavoro in nero. Sono barlumi, ma testimoniano che dal recinto dell’istituzione non si esce soltanto all’ingiù.

Anna Bravo
Pagine Ebraiche, dicembre 2014

(7 luglio 2015)