Qui Padova – In cammino per la Memoria
Una marcia silenziosa lungo le vie del centro storico e dell’antico ghetto di Padova per ricordare la persecuzione subita dagli ebrei della città. Ad organizzarla, la Comunità ebraica padovana assieme alla Comunità di Sant’Egidio, in memoria di quel 3 dicembre del 1943 che segnò uno dei momenti più drammatici della storia cittadina. Quella data coincise infatti, come ha ricordato Alessandra Coin della Comunità di Sant’Egidio, con “il prelevamento, il 3 dicembre 1943, degli ebrei di Padova, in esecuzione dell’ordinanza n. 5 della Repubblica sociale italiana, e l’apertura del Campo di concentramento di Vò Euganeo, dal quale il 17 luglio del 1944, i 47 internati furono deportati ad Auschwitz”. Tanti i giovani che hanno voluto prender parte alla marcia, nel corso della quale hanno preso la parola il presidente della Comunità ebraica di Padova e Consigliere dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Davide Romanin Jacur, il rettore dell’Università Rosario Rizzuto, la presidente del Consiglio comunale Federica Pietrogrande e il rappresentante della curia di Padova don Giovanni Brusegan. Nel suo intervento, il presidente Romanin Jacur ha voluto parafrasare una famosa poesia scritta dal pastore Martin Niemöller per condannare la violenza nazista, riadattandola ai tragici scenari attuali. “Quando fecero l’attentato al museo di Bruxelles – ha ricordato Romanin Jacur – pensai che, come per i molteplici e sconosciuti atti di antisemitismo nel mondo, in fin dei conti era un museo ebraico. Quando attaccarono il museo del Bardo a Tunisi, pensai che, in fin dei conti, si trattava di arabi. Quando ebbi notizia dei massacri e dei rapimenti delle donne e dei bambini Yazidi, Copti o Circassi, nigeriani, ivoriani o maliani, pensai che erano popolazioni sconosciute e che si massacravano tra di loro. Quando esplosero le donne ed i bambini furono utilizzati come scudi umani, io pensai che … bè, c’era meno gente da sfamare. Quando vennero abbattuti aerei con centinaia di passeggeri, io pensai che, in fin dei conti, erano malesi o russi. Quando accoltellarono gli israeliani o anche gli ebrei italiani, quando vennero lanciati missili sulla popolazione civile, io pensai che forse se l’erano voluta. Quando tutte le coste del Mediterraneo, dalla Turchia al Marocco, ribollirono di guerre vere, io pensai che avrei evitato di andarci e ne sarei stato proprio esente. Quando un regime tra i più oscurantisti e sanguinari venne sdoganato per mere questioni economiche e logistiche, io pensai che gli italiani avrebbero potuto guadagnarci qualcosa. Quando regimi del tutto medievali esportarono il terrorismo, per non averlo in casa, io pensai ad un omaggio finanziario a san petrolio. Quando una dittatura uccise il suo popolo, quando un’altra uccise la libertà e fece affari con il terrore, pensai che … nessuno può essere perfetto. Quando milioni di persone fuggono per preservare uno scampolo di vita degna di essere vissuta, io penso che non ho alcuna colpa e nessuna responsabilità… Quando a Parigi vennero uccisi 130 cittadini di 19 Paesi diversi, tra i quali anche una mia vicina di casa, ecco, allora mi domando dove era prima la mia attenzione, e se non sia troppo tardi…”.
(4 dicembre 2015)