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Berlino-Gerusalemme, sei strade
Cosa succede quando un sogno agognato e ardentemente desiderato diventa reale? Come sostenere la complessità della vita vera quando si era abituati ad arredare nella propria testa una dimora fantastica? Come reagire infine quando si capisce che per accedere alla città di Utopia è necessario, come minimo, zappare la terra? Di questo e di molto altro tratta Tra sogno e realtà. Ebrei tedeschi in Palestina (1920-1948) (Guerini e associati
editore), il libro di Claudia Sonino, docente di Letteratura tedesca all’Università di Pavia, che cattura sulla carta la vita di “sei personaggi in cerca di autore” che, tra gli anni ‘20 e ‘30 del Novecento, si trasferirono dall’Europa nell’allora Palestina mandataria per costruire la futura Israele. Stiamo parlando di Hugo Bergmann, Gershom Scholem, Gabriele Tergit, Else Lasker-Schüler, Arnold Zweig e Paul Mühsam, campioni dell’intellighenzia del mondo tedesco e austroungarico e portatori del retaggio di una tradizione ebraica illuminata. Accomunati da un legame viscerale con la lingua materna e profondamente connessi con la loro identità ebraica, lasciarono il paese d’origine per motivi disparati: la vocazione spirituale unisce il filosofo celebre per i suoi lavori sul Messianesimo, Scholem, alla poetessa Lasker-Schüler. Una ricerca di spiritualità che lascerà entrambi piuttosto delusi una volta arrivati nella terra promessa. Diversa vocazione ha lo scrittore Arnold Zweig, che si trasferisce animato “dall’epopea sionista e socialista” e si scontra con una realtà più dura del previsto che minaccia i suoi sogni ad occhi aperti. Sionista convinto è anche Hugo Bergmann, l’intellettuale praghese compagno di scuola
di Franz Kafka, che vorrebbe per la futura Israele adottare un modello virtuoso di etica ma che si incaglia con le problematiche di tutti i giorni.
Se i quattro citati sopra sono animati da ideali intrisi di cultura romantica di stampo tedesco, la giornalista Gabriele Tergit, assai famosa nella terra natia, e l’avvocato e scrittore Paul Mühsam partono per necessità, sfuggendo alle prime avvisaglie naziste. Particolarmente esemplare fu il caso di Mühsam che, arrivato in Palestina già anziano e privo di ogni aspettativa, riuscì ad integrarsi e a cogliere il buono della vecchia terra nuova, ammirando il kibbutz e ammettendo amaramente che la sua Germania, così come la conosceva, non esisteva più. Bisogna segnalare però che il percorso perseguito dalla ricerca di Sonino non vuole raccontare il crollo di un’utopia, ma catturare lucidamente lo scarto emerso nel momento in cui il sogno incontra la realtà. “Tutti e sei i personaggi – spiega – non smetteranno mai di credere nei propri sogni”.
Professoressa Sonino, come ha ristretto il campo e deciso di raccontare la loro storia?
Li ho scelti perché sono figure affascinanti e perché ognuno rappresenta un incontro diverso con la terra d’Israele. Evocano sogni e utopie e portano con loro il corredo ereditato dall’ebraismo emancipato tedesco, ma allo stesso tempo non ripudiano mai le proprie radici. La difficoltà di adattamento si riscontra quando fanno i conti con la dura realtà assai diversa dalle aspettative coltivate in Germania o a Praga. I loro sogni e la loro vita saranno pieni di luci e di ombre.
Ad accomunarli c’è un legame profondissimo con la lingua tedesca tanto che hanno difficoltà ad abbandonarla per adottare l’ebraico. Come lo spiega?
La lingua e la cultura tedesca rappresentano l’ebraismo moderno: dobbiamo tenere presente che l’emancipazione è partita proprio lì. Prima che ci fosse l’avvento del nazismo, infatti, i paesi tedeschi hanno offerto agli ebrei una traiettoria e una patria. Bisogna poi ricordare che tutti e sei i protagonisti erano scrittori e pensatori e che la lingua madre per ogni essere umano è un cordone ombelicale: per uno scrittore la vera patria risiede nel linguaggio. Infine non posso non menzionare come il sionismo sia nato e sia stato formulato in lingua tedesca: Herzl nei suoi diari immaginava che nella futura Israele la lingua adottata sarebbe stato proprio il tedesco.
C’è un grande assente di cui però si percepisce costantemente la presenza: il filosofo Martin Buber. Come mai?
Buber in qualche modo tiene le fila e collega tutti i personaggi, ma avevo un limite temporale ben preciso sul quale concentrarmi e mi avrebbe portato troppo in là. In effetti resta un regista occulto e segreto che la gioventù di quel tempo considerò come un punto di riferimento e un maestro.
Nel capitolo dedicato a Bergmann si tratta anche dell’immortale scrittore ebreo praghese Franz Kafka. Che rapporto intercorre tra Kafka e il sionismo?
Kafka è consapevole di appartenere all’ebraismo occidentale e di essere il più occidentale tra gli ebrei che conosce; sa di essere in qualche modo perduto. Dobbiamo pensare che il sionismo di Martin Buber era di stampo tedesco e che Kafka in qualche modo si sentiva più vicino all’esempio degli ebrei orientali la cui religione si viveva nella quotidianità e mancava di artificiosità. Nonostante fosse immune dalle sirene buberiane, Franz Kafka non lo era però dal sionismo per cui provava un desiderio che si acuì negli ultimi anni della sua vita, quando fu consapevole che non sarebbe mai partito perché morente. L’impossibilità gli ha fatto coltivare la passione per la sua identità: studiò l’ebraico e l’amore per Dora Diamant, discendente di una famiglia chassidica, lo fece avvicinare di più alle sue origini. A tenerlo lontano dalla Palestina fu anche un altro elemento: Kafka sapeva di essere un grande scrittore ed era consapevole che l’avventura sionista lo avrebbe allontanato dalla sua arte. Verso la terra promessa ha mantenuto un sentimento di equilibrio tra nostalgia e impossibilità.
Nel libro appare molto spesso la parola Tikkun, il concetto ebraico di riparazione del mondo: costruire Israele era per questi personaggi una sorta di riparazione del mondo?
A questa domanda non c’è una risposta univoca. Scholem sperava in qualche manifestazione del Tikkun o ipotesi messianica e proprio per questo rimane inizialmente deluso quando si rende conto che non accade niente di tutto questo. Lasker-Schüler ha aspettative simili anche se i due sono molto lontani per altri aspetti. Entrambi si aspettano che la vita cambi, che ci sia una sorta di redenzione. Allo stesso tempo permane però la consapevolezza che la terra d’Israele celi in sé qualcosa di misterioso e miracoloso; come si spiegherebbe altrimenti la sopravvivenza del suo popolo? Ancora oggi Israele ha una grande dote, che è quella che le fa dare un significato ad ogni cosa e questo non può lasciare indifferenti.
Cosa resta oggi in Israele dell’eredità ebraico-tedesca?
Negli anni ’30 l’Università ebraica di Gerusalemme era una vera e propria piccola Weimar, adesso prevale una certa american way of life. Ma per ritrovare la dimensione della grande accademia tedesca basta visitare la biblioteca di Scholem a Givat Ram con la sua impronta rigorosa e seria, ereditata dalla vecchia Europa.
Rachel Silvera
Pagine Ebraiche, dicembre 2015
(Nell’immagine, il pensatore Gershom Scholem in uno scatto di Bern Schwartz)
(13 dicembre 2015)