Religioni e civiltà – Le insidie nell’Islam d’Europa
I drammatici episodi di terrorismo del 2015 hanno avuto come conseguenza l’inasprimento di un vero e proprio scontro di civiltà. Dove rischia di portarci questa contrapposizione?
Luca Filli, Brescello
Mohammed, il padre di Samy Amimour, uno degli attentatori suicidi della strage del Bataclan, raccontò a Le Monde di essersi recato in Siria per cercare di convincere suo figlio a tornare a casa e lasciare il Daesh. Storia analoga quella di Omar Abaaoud, padre del belga Abdelhamid, il presunto stratega degli attentati di Parigi, il quale ugualmente non si capacita della “cattiva strada” intrapresa dal figlio. “Le nostre vite sono distrutte. Noi dobbiamo tutto a questo paese” dichiara ai giornalisti. Questa e tante altre testimonianze delineano ogni qual volta, l’incomprensione e un netto divario tra padri e figli, tra vecchie e nuove generazioni di beurs. In un illuminante libro del 2002, dal titolo L’Islam Globale, Khaled Fouad Allam – ricordato anche su queste pagine a seguito della sua recente scomparsa – sottolineò proprio nel suo proemio questa distanza, raccontando il dialogo tra una madre nata in Algeria e la propria figlia francese studentessa alla Sorbona, la prima legata al suo mondo d’origine ma ormai integrata nel moderno tessuto francese, la seconda slegata all’identità della madre ma aderente a una nuova umma che viene esibita con la scelta di portare il hijab. Non dovrebbe stupire allora che, confrontando anche i numerosi sondaggi effettuati tra i discendenti di magrebini in Francia o tra i turchi in Germania, l’appartenenza ad un Islam più ortodosso e intransigente è peculiare dei giovani nati e cresciuti in Europa, rispetto ai propri genitori o nonni emigrati direttamente dai paesi mediorientali o asiatici nel dopoguerra. Riecheggiando Ivan Turgenev, per Olivier Roy, politologo ed orientalista francese, “l’Islam non è altro che un pretesto” alla base vi sarebbe una rivolta generazionale votata al nichilismo, nella quale i giovani (ri)convertiti al salafismo e pienamente occidentalizzati, avrebbero rotto i ponti con i loro genitori in quanto a cultura e religione. Ad attirarli, come per i convertiti, sarebbe proprio il radicalismo. Farhad Khosrokhavar, un sociologo iraniano che a lungo si è occupato di Islam contemporaneo, spiega che “l’islam diventa per i giovani il simbolo di una resistenza perché nessuna ideologia è più in grado di offrirgli un supporto emotivo e la sicurezza del sacro”. Per Khosrokhavar, sebbene non neghi che tra i jihadisti vi siano appartenenti anche alla classe media – la quale coinvolgeva soprattutto i membri di al-Qaeda – “il modello dominante, è quello offerto dai giovani delle banlieues”, il quale disporrebbe di un “indiscutibile strumento antropologico: l’odio per la società, sacralizzato nella formula onnicomprensiva del jihad, stravolto e privo ormai di qualsiasi contenuto religioso in senso stretto.” La grande invenzione sarebbe, oltre allo shadid (il martire), quella della neoumma. “Una comunità che non è mai esistita storicamente e che i giovani europei disorientati cercano di realizzare come rimedio al loro malessere identitario.” Smarcati dalle culture d’origine, che in qualche modo edulcoravano la rigidità dell’Islam moderno con tradizioni locali eterodosse, e immersi in una società percepita come poco inclusiva, gran parte dei giovani musulmani francesi vive in un contesto di alienazione e di forte degrado sociale, dove fa da padrone il consumo di droga, la delinquenza, la bassa scolarizzazione e la disoccupazione. La ricerca di una nuova identità, di una realizzazione e di un senso per la propria vita, trova facilmente una risposta nell’adesione ad un ritorno a una “religione pura” la quale non di rado sfocia nell’estremismo. Un percorso iniziatico che spesso comincia nelle carceri con imam autoproclamatisi, nei capannoni abusivi lontani dalle moschee “ufficiali”, e soprattutto attraverso l’inesauribile propaganda su internet, e si conclude con l’imbracciare un fucile per compiere stragi o con il partire per la Siria ed unirsi al Daesh. I territoires perdus de la République, come li ha definiti lo storico Georges Bensoussan, non sono una realtà recente, ma un contesto che lentamente si è evoluto, che ha le sue radici con le rivolte del 2005, o con i gridi di malcontento e ressentiment espressi in innumerevoli testi hip-hop composti in gran parte da figli di immigrati, probabilmente sconosciuti nelle settecentesche sale del Palais de l’Élysée. Lo Stato francese del resto è riuscito ad intervenire e a considerare seriamente il problema del terrorismo, almeno dopo gli ultimi attacchi al Bataclan, ma puntare esclusivamente sulla sicurezza e sulla lotta al terrore non è certamente l’unica soluzione. Come scrive il sociologo Michel Kokoreff, la Francia e così l’Europa, “deve favorire l’inclusione”. Il rischio è che questo clima da scontro di civiltà conduca a una maggiore divisione ed emarginazione, favorendo quindi gli obiettivi del Daesh che trova in esso il suo terreno fertile e d’elezione e che ha come alleati inconsapevoli proprio i teorici di Eurabia e le destre radicali. Questi ultimi considerano l’integralismo islamista come una tendenza o come una norma insita propriamente nella generale minaccia dell’Islam e nel correlato odio anti-occidentale, insistendo sulla contingenza che tra i jihadisti vi siano talvolta appartenenti a una classe media ben inserita e insospettabile, laddove un qualunque musulmano potrebbe essere un potenziale terrorista. Eppure se il jihadismo è indubbiamente un fenomeno che non si può scindere dalle sue radici coraniche (o almeno dalle sue molteplici interpretazioni) e da un desiderio di rivalsa contro l’occidente, negare che alla base di esso vi sia un problema di integrazione e una rivolta generazionale significa guardare alla realtà soltanto attraverso una lente parziale e utilitaristica. Dei cinque-sei milioni di musulmani francesi – non esiste un censimento ufficiale, e sovente nelle stime approssimative viene considerato musulmano un qualunque cittadino proveniente da un paese di cultura araba, turca o indo-iranica – soltanto un terzo si dichiara praticante, il resto è parte di una maggioranza invisibile e silenziosa, la quale come per la “comunità dei fedeli”, se non verrà debitamente inserita nella società francese, potrebbe cadere preda anch’essa, sia della criminalità come già avviene, sia all’interno di istanze fondamentaliste. Un rischio che grava, non solo sulla diaspora ebraica, ma come si è visto dopo le recenti stragi, sull’intera Europa e sul modo di concepire le nostre democrazie.
Francesco Moises Bassano, studente
Pagine Ebraiche, febbraio 2016
(4 febbraio 2016)