ORIZZONTE EUROPA Convivenza, il modello è sempre più in crisi
“Alla fine l’amicizia è la vera patria. E lei può star sicuro che le resterò fedele più di chiunque altro”. Sono le parole di chiusura della lettera che Joseph Roth scrive a Stefan Zweig il 24 luglio 1935 (la lettera è riprodotta in volumetto denso e esile, Joseph Roth – Stefan Zweig, L’amicizia è la vera patria, Castelvecchi 2015, p.30). Prima la precede un lungo sfogo amaro in varie lettere, spesso senza risposta o di cui la risposta è andata smarrita, sulla propria solitudine da parte di Roth e una risposta molto secca di Zweig che lo invita ad aver cura di sé. L’amicizia che sta dentro a queste lettere è quella che si misura negli anni dell’esilio. È una condizione su cui varrebbe la pena riflettere in questo tempo segnato da molti che sono fisicamente in esilio e dai molti che magari non lo sono rispetto al luogo di nascita, eppure non per questo “si sentono a casa”. E che perciò, anche per questo, sognano di “essere a casa” altrove, o di “tornare a casa”, spesso nutrendo questo sentimento con una filosofia bellica. Ovvero dicendo che la propria casa è stata invasa e che dunque occorre intraprendere una dura battaglia per riconquistarla. Al centro di questo sentimento sta la convinzione, propria di questo nostro tempo: quella di stare “ciascuno tra i suoi”, “a casa propria”. Dunque: “non invadere il campo”, stabilire dei confini. Soprattutto “non essere invasi”. Riguarda tutte le società contemporanee: da Stoccolma a Teheran, da Pechino a Montevideo. Ma è dell’Europa che è bene parlare. È una condizione che non nasce solo dalla convinzione che convivere sia pericoloso o impossibile, ma anche dal ritenere che sia un inutile sforzo, un voler andare controsenso. Può essere ma la politica da sempre non è fare ciò che si può fare in linea con il proprio tempo, ma tentare di superarlo e con ciò predisporre un futuro. Diversamente: politica è pensare l’impossibile perché il possibile divenga in qualche forma realizzabile. La politica dunque è ciò che si fa in base e in relazione a un progetto, a un sogno. Certo ci sono sogni che si presentano come incubi, ma anch’essi indicano possibilità di realizzazione e laddove queste si realizzano, testimoniano del grado di coinvolgimento e di consenso e misurano la quantità dei no non pronunciati. Nessun totalitarismo vince senza che si sia prima determinata una linea di non opposizione che consente non solo la sua costruzione, ma anche lo dota della sua forza. Dunque l’esilio e “casa propria”. A lungo abbiamo pensato che esilio fosse un’esperienza che derivava dal non essere a casa e dunque alludesse a una doppia possibilità: da una parte ritrovare la via di casa, interrompendo una condizione di disagio, di fuori luogo e dunque ricucire uno strappo precedente; dall’altra impegnarsi a trovare un centro, un luogo dell’identità tra la propria condizione personale e quella collettiva. Ovvero sentirsi “di casa” da qualche parte, spesso facendo leva sul sentimento di amicizia. Un modo diverso di coniugare il sentimento di solidarietà fondato sulla pari condizione di disagio. Non è proprio qui, che è iniziato il fallimento del progetto europeo? Quando è tornata la voglia di “casa propria” e improvvisamente quello che era stato vissuto come un possibile paradiso terrestre si è trasformato in un impegno gravoso? Quando l’idea di andare fuori casa ha perso il fascino della sfida e si è riproposto, sotto altra veste, con altro fascino, l’adagio che piccolo è bello?
David Bidussa, storico sociale delle idee
Pagine Ebraiche, febbraio 2016