JCiak – Tre baciati dall’Oscar

oscarSenza sorprese mozzafiato, l’Oscar quest’anno ci consegna alcune belle certezze. Si può discutere se sia stato davvero l’Oscar dell’impegno, come molti critici l’hanno subito etichettato. O se l’impegno non sia stato piuttosto una foglia di fico da esibire contro la scottante etichetta di Oscar troppo bianchi e distanti dalla vita vera. In alternativa, ci si può invece godere qualche serata al cinema con i vincitori, che molto ci regalano anche sotto il profilo ebraico con una superba tripletta composta da Il figlio di Saul (miglior film straniero), Spotlight (miglior film) e Amy (miglior documentario lungo).
Su Il figlio di Saul, si è detto e scritto fin troppo. Il lavoro di László Nemes ci sprofonda nell’inferno di Auschwitz in un close up teso e angosciante sul viso di Saul (Géza Röhrig), alla disperata ricerca di una sepoltura per il corpo che crede di suo figlio. Quella di Nemes è una scelta di grande impatto estetico ed emotivo che non cede mai al voyeurismo dell’orrore, su cui spesso inciampano anche i migliori film sullo sterminio nazista. Non a caso Il figlio di Saul ha riscosso persino l’approvazione di Claude Lanzmann, l’autore di Shoah che finora aveva stigmatizzato con grande durezza ogni tentativo di raccontare quegli anni attraverso le lenti della fiction.
La vittoria di Nemes è in singolare coincidenza con il vincitore dello scorso anno, Ida di Pawel Pawlikowsky, storia di una giovane che, nella Polonia degli anni Sessanta, mentre sta per prendere i voti scopre che i genitori erano ebrei e sono morti durante l’occupazione nazista. E colpiva, la sera degli Oscar, vedere in platea Steven Spielberg – in corsa con Il ponte delle spie – che più di vent’anni fa con Schindler’s List percorreva una strada opposta a quella battuta da Nemes, intrecciando storia e spettacolarità. Se poi si tiene conto che quello per Il figlio di Saul è il primo Oscar ungherese dopo quello assegnato nel 1981 a István Szabó per Mephisto, film tratto dall’omonimo romanzo di Klaus Mann e incentrato sugli orrendi compromessi di un uomo con il nazismo, la serie delle coincidenze è bella completa.
Passando a Il caso Spotlight, se ancora non l’avete fatto correte a vederlo perché l’Oscar come migliore film arriva a pieno merito. Grande storia di giornalismo e verità, il film diretto da Tom McCarthy ci riporta indietro di 15 anni, all’inchiesta del Boston Globe che svelò lo scandalo della pedofilia nella Chiesa. A dirigere il giornale è arrivato da poco Mary Baron, oggi è direttore esecutivo del Washington Post. È lui a spingere il team di giornalisti investigativi chiamato Spotlight a seguire le tracce di testimonianze che riferiscono di episodi di pedofilia da parte di un prete cattolico, padre John Geoghan. L’inchiesta, che come tutte le vere inchieste è un certosino lavoro di archivio, telefonate, testimoni da stanare e stanchezze abissali, porta a galla una verità che farà tremare il Vaticano. E mentre Tutti gli uomini del presidente (1976) di Alan J. Pakula o Insider (1999) di Michael Mann avevano raccontato due storiche inchieste mettendo al centro i giornalisti, Il caso Spotlight riesce nel miracolo di raccontare una vicenda complessa in un film corale che ci regala alcune interpretazioni notevoli sia da Michael Keaton, sia da Rachel Mc Adams e Mark Ruffalo (che l’Oscar come migliore attore non protagonista se lo meritava proprio).
Il film accentua l’appartenenza ebraica di Marty Baron, interpretato da Liev Schreiber. A più riprese si vede come la Boston cattolica si chiuda a riccio davanti a quest’estraneo che ficca il naso in faccende che non lo riguardano. In una delle scene più spassose, il cardinale Bernard Law, che lo incontra in forma ufficiale, gli manda un segnale forte e chiaro regalandogli un ponderoso libro di catechismo. “La gente mi chiede perché mi sono concentrato sul suo essere ebreo. La risposta è che è quello che fece allora Boston”, ha spiegato Josh Singer, autore insieme a Tom McCarthy della sceneggiatura, anch’essa premiata dall’Oscar (per la cronaca, anche Singer è ebreo, il che forse spiega una sua specifica sensibilità sull’argomento). Marty Baron, sorpreso da questo accento sul suo essere ebreo, sostiene invece di non aver mai considerato allora la cosa come un problema.
Di tutt’altra pasta Amy, di Asif Kapadia, che ha un’unica grande protagonista, la bravissima e fragilissima Amy Winehouse. Il documentario, che ha già girato mezzo mondo raccogliendo gran consensi di pubblico e critica, ne restituisce un’immagine sfaccettata che poco o niente ha a che vedere con le speculazioni, compiute in vita o dopo la morte, da tanta stampa trash. “Volevamo parlare della Amy Winehouse bella, divertente, spiritosa e intelligente che aveva bisogno di qualcuno che si occupasse di lei”, ha detto il regista ritirando il premio.
Immediato, via Twitter è arrivato il contrattacco del padre di Amy, Mitch Winehouse, che già in passato aveva espresso molti malumori per il lavoro di Kapadia, ha definito “negativa, spregevole e ingannevole” l’immagine di Amy che ne esce. “Rimetteremo le cose a posto”, ha promesso, alludendo a un suo documentario che sarebbe in lavoro.
Tanta rabbia non stupisce. L’Oscar a Amy toglie la terra sotto i piedi al documentario di famiglia. Sopratutto tenuto conto che Asif Kapadia dipinge Mr. Winehouse come un uomo sempre pronto a sfruttare la fama della figlia e assai poco propenso a occuparsene o a proteggerla.“Guardando adesso a quello che succedeva – ha spiegato il regista – ci si rende conto che Amy era una bambina che faceva stupide cose. C’era bisogno di un adulto che intervenisse e mettesse fine a tutta quella storia”. L’allusione a Mitch, con cui Amy aveva rapporti tutt’altro che idilliaci, è trasparente fino all’imbarazzo.

Daniela Gross

(Nell’immagine, l’Oscar a Il caso Spotlight)

(3 marzo 2016)