Consapevolmente divisi: il Paese vuole l’unità

della pergolaLa nuova indagine dell’Istituto Pew sul mosaico identitario in Israele solleva parecchie inquietudini ma offre anche alcune importanti ancore di certezza. Era facilmente prevedibile che i media sarebbero caduti preda della notizia che il 48 per cento della popolazione ebraica “è d’accordo sul trasferire arabi da Israele”, contro il 46 per cento di contrari e il 6 per cento di indecisi. Si poteva anzi pensare che con un atto di populismo molti quotidiani avrebbero messo la notizia in prima pagina. Ma per una specie di legge del contrappasso, nella stessa giornata in cui si presentavano al pubblico i dati della ricerca – e forse anche in connessione con la visita in Israele del vicepresidente americano Joe Biden – ci sono stati quattro gravi attentati terroristici che hanno rubato l’attenzione del titolista relegando l’indagine Pew alle pagine interne. Incresciosa paranoia xenofoba, dunque, ma corroborata da un coltello ben piantato nella schiena. L’indagine illustra la complessa stratificazione di un paese che di fatto è multiculturale anche se non è ancora pronto ad ammetterlo apertamente. Arabi musulmani, cristiani e drusi, ed ebrei di tutte le gradazioni di religiosità convivono per lo più pacificamente, anche se vengono educati e formati attraverso quattro diversi sistemi scolastici che se in passato costituivano un giusto motivo di orgoglio per l’apertura al pluralismo, oggi fanno sì che i reciproci pregiudizi si trasformino a volte in provocazione aperta. Le suddivisioni della parte ebraica della società israeliana secondo intensità della religiosità risultano abbastanza stabili, anche se le due estreme – quella più religiosa e quella antireligiosa – si rinforzano a scapito del centro moderato. Ma nel corso del tempo è anche in corso un debole processo di secolarizzazione, attraverso più frequenti passaggi da più a meno religioso che non in senso contrario. Fra i “laici”, d’altra parte, le percentuali di coloro che osservano pratiche religiose tradizionali – prima fra tutte il Seder di Pesach, ma anche il digiuno di Kippur – sono sorprendentemente alte, e questo richiede una nuova definizione del rapporto fra laicismo e religione. In un paese in cui l’80% credono in Dio, non è possibile marginalizzare o trivializzare il fenomeno religione, ed è più saggio incorporarne le energie positive nella società civile. La maggioranza dei musulmani e dei cristiani, e una grossa minoranza degli ebrei, vorrebbero infatti applicare la rispettiva legge religiosa come legge vincolante dello stato. Le basi della coesione e del consenso sono molto ampie di fronte all’aspirazione che lo stato di Israele sia ebraico, e per un’ampia maggioranza, anche democratico. Ma le divisioni e i pregiudizi reciproci riemergono quando si accenna alla possibilità di matrimoni misti fra persone di diversi gruppi religiosi. Al limite, nel settore più secolare della popolazione ebraica vi è meno preoccupazione di fronte a un matrimonio con un cristiano che non con un haredi (religioso): altro possibile titolone mancato per la stampa quotidiana. Esiste discriminazione in Israele nei confronti di una varietà di gruppi e individui, ma esiste anche molta consapevolezza del problema, e questo è già un primo passo in avanti. È possibile trarre una prima conclusione sui nuovi risultati dell’indagine: il paese è diviso, ma ciononostante avanza a passi da gigante sul terreno della modernizzazione, e tutti capiscono che la società israeliana non può essere un blocco monolitico. Si tratta di accelerare quei processi che possono favorire la comprensione e la tolleranza reciproca. E in primo luogo serve una leadership politica nazionale che insista su un messaggio di riappacificazione e di unità e non di polarizzazione e di delegittimazione dell’altro.

Sergio Della Pergola, Università Ebraica di Gerusalemme