Il Deserto Rosso in fiore
Chissà se la scena piacerebbe a Meir Shalev, il più bucolico (ma anche ironico) fra gli scrittori israeliani contemporanei. In quasi tutti i suoi romanzi la fanno da protagonisti le passioni umane e la natura con le sue tinte, la sua dolcezza e le asperità di cui la terra d’Israele è piuttosto generosa. In questa stagione dell’anno, peraltro, l’asperità maggiore sta nel raggiungerla, la natura. Almeno il sabato, giorno festivo. Dal Sud al Nord del Paese questo è il periodo delle fioriture selvatiche: un momento magico in cui il verde la fa da padrone – ed è uno spettacolo già di per sé, soprattutto per chi sa che presto questo colore lascerà spazio al giallo e all’ocra della lunga e arida estate. E poi ci sono, ovviamente, i fiori: il pezzo forte dell’evento. L’Alto Negev, ad esempio, diventa u na costellazione di anemoni spontanei, tanto da farne occasione di un festival nazionale – Darom Adom , «Sud Rosso» (non nel senso della politica). Quando è stagione di Darom Adom, cioè dalla seconda metà di febbraio sino a fine marzo, il sabato capita di stare in coda per buone ore, in attesa di raggiungere i prati. Ma gli israeliani, di solito molto poco tolleranti alla guida, consumatori compulsivi di clacson, quando il sabato si tratta di scendere al Sud per gli anemoni rossi diventano infinitamente pazienti. E lo spettacolo diventano loro: famiglie più o meno numerose, preadolescenti che sbuffano perché in astinenza da videogioco, stuoli di bambini eccitati dall’ignoto più che dal festival floreale. Stanno in coda finché non arrivano al parcheggio opportunamente segnalato e di lì si riversano a valanga sui poveri prati. A fare il picnic, giocare al pallone, tentare un barbecue improvvisato. È vero che quei timidi fiori sono davvero strabilianti, in questa stagione. Riempiono gli occhi e il cuore. Sotto una colli- na di anemoni da queste parti, fra dei vecchi sicomori, è sepolto Ariel Sharon accanto a sua moglie. Nella sua fattoria del Neghev ha trascorso gli ultimi, esausti anni di incoscienza. Ma gli israeliani che calano da queste parti in mas sa nella stagione del Deserto Rosso non pensano ai morti, c ’è da scommetterci. Vengono qui per rilassarsi, magari seduti per terra proprio sul ciglio della strada, come chi nel nostro Paese va a fare la gita sulla piazzuola dell’autostrada. C’è anche l’immancabile venditore di gelati che sbraita da un malconcio altoparlante. L’eco della sua vociona risuona dentro gli agrumeti ancora carichi di frutti. Q ualcuno si avventura fra i filari, raccoglie mandaranci, limoni, grappoli di minuscoli kumquat. Agrumeto in ebraico si dice pardes, da cui viene la parola «paradiso». È una scena un po’ campestre e un po’ surreale. Gli israeliani non hanno paura dell’affollamento, anzi. Sono tendenzialmente agorafobici. I gruppi si piazzan o vicini vicini, quasi si toccano. Chiacchierano a voce alta. Purtroppo pestano i fiori. Ma è vietato raccoglierli e nessuno lo fa, perché tutti sanno che questa na- tura è bella, stupefacente addirittura. Anche tremendamente fragile come breve è il tempo di questa fioritura che non ha bisogno d’altro che della stagione giusta, del sole ancora gentile, di un poco d’acqua. Quest’anno ne è scesa abbastanza per rinverdire il deserto, moltiplicare gli anemoni alle propaggini del Negev. E richiamare frotte di israeliani in coda sulla superstrada prima di raggiungere i campi, le colline, i rossi tappeti di anemoni. C’è qualcosa di atavico e profondo in questo amore per la natura un po’ grezzo, c’è qualcosa di tenero e quasi commovente nel modo in cui queste miriadi di madri, padri, nonni e figli si buttano sui prati, magari schiacciando i poveri fiori: toccare e respirare la terra, sentire di farne parte, come non capitava suppergiù da qualche millennio. Il Deserto Rosso in questa stagione è certo un festival di fiori e masse umane in lento movimento, una cosa che più nazional popolare di così non si può. Ma è anche la meraviglia di trovarsi a contatto stretto con la terra e sentire che quello spettacolo di fiori è per tutti e per ciascuno di noi.
Lea Luzzatti, La Stampa 9 marzo 2016
(13 marzo 2016)