Venezia e i 500 anni del ghetto Capire l’oggi riflettendo sulla segregazione
Provando a fare chiarezza sugli equivoci – nei quali spesso cadono i turisti meno accorti che si aggirano curiosi fra le calli e i campi di Venezia – è opportuno sottolineare che il Ghetto di Venezia non è stato il primo “ghetto” del mondo, e che non ha nulla a che fare con i ghetti istituiti dai nazisti. La prima affermazione fa scandalo (specie se espressa nell’ambito delle manifestazioni per ricordare i 500 anni dalla istituzione del Ghetto di Venezia), ma sul piano sociologico è così. Al più si può affermare che il Ghetto di Venezia è stato il primo luogo di residenza coatta per gli ebrei che è stato chiamato con questo nome, ma dev’essere chiaro che prima del 1516 esistevano quartieri separati di residenza per gli ebrei: Judengasse, Giudecche, Juderìas, a volte con regole non dissimili da quelle imposte dalla Serenissima. Ecco, così può funzionare. Sulla questione poi dei nazisti, va veramente avviato un percorso di acculturazione collettiva: Hitler e i suoi seguaci hanno coscientemente utilizzato quello che può essere definito in termini moderni un “brand” storico, per far passare un messaggio chiaro che mantiene purtroppo una sua efficacia nel tempo. Per lui gli ebrei potevano al più vivere (prima della soluzione finale) in Ghetti, indossando la loro stella gialla e mantenendosi ben divisi dalla popolazione. E nell’immaginario collettivo – complici alcuni film e una generalizzata ignoranza degli avvenimenti storici – purtroppo per molti fra i visitatori di Venezia “tutti gli ebrei vivono in ghetto e il ghetto l’ha istituito il Nazismo.” Non è così. Secondo uno dei padri della sociologia, Louis Wirth (Il ghetto. Il funzionamento sociale e psicologico della segregazione, Res Gestae, 2014), il ghetto assume in età moderna e contemporanea due accezioni ben riconoscibili: da un lato sarebbe una forma sociale che accompagna i processi di migrazione (le little Italy, China ecc. negli USA, i cosiddetti quartieri etnici), e in seconda battuta sarebbe una forma stabile di dominio e un’espressione di pregiudizio razziale, specie nell’Europa storica. Esiste quindi una grande attualità nella riflessione sul concetto di Ghetto: i fenomeni migratori, a cui le nostre società si sono ormai abituate senza riuscire a fornire risposte convincenti ed efficaci, e nello stesso tempo il riemergere di pregiudizi e tensioni razziali che si speravano seppellite e condannate dall’esperienza storica del secondo conflitto mondiale, fanno di questo tema uno dei luoghi fondamentali della memoria del nostro tempo. Ma la riflessione sociologica non si ferma qui e include nei temi relativi alla ghettizzazione delle realtà che in diversi modi possono essere ricondotte all’esperienza storica che a Venezia ha trovato un nome. All’idea di ghetto possono così essere associati luoghi come il lazzaretto, storico antecedente degli odierni ospedali, ma luogo di segregazione coatta causata da sospette e inconoscibili malattie da tener ben separate dalla collettività. E di certo il manicomio risponde a caratteristiche non dissimili: di nuovo un luogo gestito sulla base di regole di esclusione, per preservare la società di maggioranza da una presenza inaccettabile e incompresa. Naturalmente il campo di concentramento, estensione brutale della più tradizionale prigione. Ma anche la caserma e – perché no? – il postribolo. Ma se volgiamo lo sguardo alle grandi realtà urbane extraeuropee, come non considerare esempi di segregazione le grandi concentrazioni umane delle Favelas del Sud America, o i quartieri dell’emarginazione nera delle grandi metropoli Statunitensi? O ancora – in senso orgogliosamente positivo – come stupirsi dei fenomeni di autosegregazione giovanile di gruppi che amano definire i propri spazi autonomi con il termine “ghetto”, luoghi di vita alternativa lontana dal modello imposto dal consumismo capitalistico? Si tratta in tutti questi casi di luoghi di segregazione sociale che dall’esperienza del Ghetto hanno tratto modelli funzionali che si sono riprodotti in ogni tempo e a tutte le latitudini, e che non accennano a scomparire. Per questo motivo, se parliamo da un punto di vista sociologico, la data del 1797, anno in cui le porte del Ghetto veneziano vennero abbattute, non rappresenta se non una tappa di una storia che continua nel presente e non accenna ad estinguersi.
Gadi Luzzatto Voghera, storico
(Foto: Paolo Della Corte)
Venezia e i 500 anni del ghetto
L’occasione giusta per ricordare i diritti negati
La storia dell’ebraismo è costellata di tormenti e persecuzioni a cadenza regolare. La Shoah ne è stata il culmine atroce. Il popolo ebraico ha rafforzato la propria identità anche (non certo soltanto!) esercitando la memoria del pregiudizio e della discriminazione di cui è stato oggetto nei secoli. Non credo che un’altra cultura, oltre alla nostra, abbia puntato tanto sulla memoria. La nostra non è mai celebrazione, ossia atto di esaltazione o glorificazione. È invece il ritrovarsi insieme nell’atto di co(m)-memorazione, l’unirsi nel ricordo che di norma, ove nel caso, si conclude con un kaddish.
L’istituzione del primo ghetto formale della storia costringe a riflessioni di vario genere. Non si tratta, in effetti, del primo ghetto in assoluto. In Marocco c’erano le mellah, a Tunisi la hira, che in Algeria si chiamava harrah, e al Cairo harat al yahud; in Spagna juderìa. Nessuno si è mai sognato di dire o di pensare che l’isolamento, la segregazione, fossero un privilegio di cui andare lieti e fieri, qualcosa da festeggiare con concerti e bei discorsi di inaugurazione. Nessuno ha mai pensato che vivere in posizione subalterna fosse una chance, una porta aperta sulla strada del successo e della gioia. Solo a certi storici in cerca di originalità, cui non dispiace il revisionismo e la decontestualizzazione, solo a loro piace far credere che gli ebrei del 1500 e del 1600 e del 1700 fossero lieti di vivere come vivevano e di essere trattati come erano trattati. Ora, è vero che il Ghetto di Venezia non era il Ghetto di Roma. Non c’era la beneamata influenza del Papa, innanzitutto, e l’illuminata Repubblica Serenissima teneva alla sua indipendenza politica e alla sua moderazione religiosa. C’era tuttavia un’Inquisizione operante. E gli ebrei, dentro al Ghetto, erano dei paria, residenti stranieri senza diritto di cittadinanza, accettati finché ritenuti utili, ricattabili a scadenza regolare, sempre a rischio di cacciata, senza poter rivendicare alcun diritto, tranne quello di pagare laute tasse. Gente ammassata in un’area ridotta, costretta a una promiscuità talora indecente e indecorosa che – se volessimo anche noi rileggere la storia con gli occhi di oggi – definiremmo bestiale.
Questo fenomeno di degradazione dell’ebreo che è stato il Ghetto di Venezia non può essere considerato un ‘meno peggio’; non si possono considerare soltanto le punte dell’iceberg, le eccellenze culturali di pochi – Elia Levita, Leon Modena, Simone Luzzatto – o le ricchezze di alcuni eletti gruppi familiari. Ricordarsi di loro ed esaltare un’epoca significa dimenticarsi, come fa spesso la storia, le moltitudini che hanno sofferto e patito, che hanno vissuto la loro unica possibilità di vita avvilite nell’abiezione. Ben peggio dei loro contemporanei non ebrei.
Sull’istituzione del ghetto e sulla vita che vi si condusse o sulle acquisizioni culturali che vi ebbero luogo, si possono organizzare convegni e seminari, confronti e dibattiti. Non eventi clamorosi che rischino di essere vissuti, da chi li organizza e da chi ne fruisce, come gioiose apoteosi di una storia che con la realtà ha ben poco a che fare. Quando le porte del Ghetto furono chiuse, non era poi così lontano il ricordo dei tre ebrei di Porto Buffolè che nel 1480 furono condannati e bruciati in Piazza S. Marco, per il solito presunto omicidio rituale. Non era ancora ghetto, ma era già Ghetto.
Su un gradino dell’Aron haKodesh della Scola Canton, in Ghetto Nuovo, è inciso il ricordo di Mordechai ben Menachem Baldosa, un ebreo assassinato, “scannato come un capretto”, nel 1672. Un ebreo che non ha certamente avuto giustizia, perché la giustizia per gli ebrei non era forse propriamente contemplata. Sarebbe bello e appropriato che, nella mente di chi celebrerà con concerti, mostre e rappresentazioni la chiusura del Ghetto nel 1516, ci fosse quell’epigrafe e quell’incidente, a simbolo di tutti i diritti che la storia e la cultura occidentale hanno negato a un intero popolo. E che qualcuno, per i tre di Porto Buffolé, per Mordechai Baldosa e per gli altri di cui forse non ricordiamo e non sappiamo, recitasse un kaddish.
Dario Calimani, anglista, Pagine Ebraiche Marzo 2016
(Foto: Paolo Della Corte)
(28 marzo 2016)