FASCISMO: QUALE MUSEO? Storici a confronto tra timori e opportunità
“Confesso di provare simpatia e un pizzico di compassione per il sindaco di quella piccola comunità che cerca di uscire da una sgradevole situazione – non è comparabile il suo ruolo istituzionale, con il più agevole compito di chi guida un luogo del martirologio nazifascista. Provo soprattutto forte l’istinto di proteggerlo dalla boria sovrana dei nostri storici ormai tutti sul piede di battaglia. L’un contro l’altro armati, ciò che rinvierà in eterno la realizzazione di un qualsiasi progetto condiviso”. Così scriveva nelle scorse settimane lo studioso Alberto Cavaglion commentando il progetto di realizzare a Predappio, comune di seimila anime in provincia di Forlì dove nacque Benito Mussolini, un museo del fascismo.
Da quando a metà febbraio è circolata la notizia dell’approvazione dell’opera, che dovrebbe costare sui cinque milioni di euro ed essere inaugurata nel 2019, gli storici italiani si sono effettivamente divisi. Per molti, il timore è quello di un’istituzione inadeguata a spiegare davvero cos’è stato il Ventennio fascista (perplessi sul Museo per esempio, Carlo Ginzburg e Simon Levi Sullam). Tanto più che Predappio è tuttora pellegrinaggio di tanti nostalgici e le simpatie fasciste trapelano in molti esercizi e abitanti, come racconta su Pagine Ebraiche il giovane austriaco Maximilian Aelfers, che ha svolto il suo servizio civile presso la Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano e ancora tempo prima dell’annuncio era andato a Predappio a verificare la situazione.
Definisce quella del Museo “Un’operazione legittima” lo storico Gadi Luzzatto Voghera, che però mette in luce come essa non giustifichi tuttavia “il colpevole ritardo di intere generazioni di dirigenti politici e illustri accademici che non hanno in questi decenni trovato il tempo né l’occasione di discutere e progettare seriamente un museo nazionale per lo studio del Fascismo e di quello che significò per la società italiana contemporanea”. A esprimersi favorevolmente al progetto anche David Bidussa, che su Pagine Ebraiche di marzo scrive “Il bisogno di narrare e raccontare il passato non si ferma. Possiamo decidere, noi storici, che quella forma non è la nostra e dunque rifiutarci di collaborare. O che la problematicità di un luogo chiede che la sua complessità sia restituibile solo attraverso un libro di storia o una discussione tra storici. La storia e il passato non per questo smetteranno di essere raccontati. Certo, talvolta, ci imbatteremo in un’offerta di qualità scarsa o, addirittura, pessima. Ma questo sarà anche conseguenza del fatto se noi storici decideremo di esserci o meno. E di accettare le sfide del nostro tempo”.
Rossella Tercatin