Geografie – Il dialogo tra nemici sul Mar Rosso
C’è un dialogo fra nemici che tiene banco in Medio Oriente. Arabia Saudita e Israele sono avversari sin dal 1948, quando Riad partecipò con un corpo di volontari alla guerra araba tesa ad impedire la nascita del giovane Stato, per poi continuare ad essere protagonista di tale, radicale, opposizione sostenendo attacchi militari, guerriglie ed offensive diplomatiche di ogni genere. Tanto in Medio Oriente quanto a Washington, dove Israele ed Arabia Saudita sono state protagoniste per decenni di aspri scontri: contendendosi il sostegno del Congresso e l’alleanza della Casa Bianca. Tali e tanti precedenti suggeriscono l’importanza di quanto avvenuto sul palco del «Washington Institute» allorché, davanti ad un pubblico di analisti ed in diretta web, l’ex capo dell’intelligence saudita Turki al-Faisal – esponente di rango della famiglia reale – ha dialogato con l’ex generale Yaakov Amidror, già consigliere per la sicurezza del premier israeliano Benjamin Netanyahu. A quasi un anno dalla prima stretta di mano in pubblico fra alti funzionari dei due Paesi – il direttore generale del ministero degli Esteri israeliano, Dore Gold, e l’ex consigliere governativo saudita Anwar Eshki, in un centro studi di New York – le indiscrezioni su visite segrete, cooperazione strategica e convergenze occasionali hanno prodotto a Washington un colloquio pubblico fra al-Faisal e Amidror con caratteristiche da manuale della Guerra Fredda. I due oratori erano a parole divergenti su tutto ma al contempo sedevano fisicamente fianco a fianco, guardandosi senza remore per scambiarsi battute agrodolci. Poiché si tratta dei rappresentanti di due nazioni ancora formalmente in guerra bisogna chiedersi cosa sta avvenendo fra Riad e Gerusalemme. La risposta è triplice. Primo: hanno in comune gli stessi nemici perché entrambi considerano l’Iran dotato di programma nucleare una minaccia alla sicurezza nazionale, vogliono impedire a Teheran l’estensione della propria egemonia sul Medio Oriente e temono in egual misura i gruppi jihadisti sunniti intenzionati ad edificare un Califfato islamico nell’intera regione. Secondo: hanno avuto attriti simili con l’amministrazione Obama, a causa delle convergenze di Washington con Teheran e con i Fratelli musulmani in Egitto, e scommettono sulla possibilità che il nuovo Presidente degli Stati Uniti possa ridisegnare le scelte regionali tornando a privilegiare i rapporti con i tradizionali alleati. Terzo: condividono la necessità di lavorare ad una soluzione del conflitto israelo-palestinese attraverso un nuovo format ovvero il dialogo fra Israele e Stati sunniti. Se Yaakov Peri, deputato dell’opposizione israeliana ed ex capo del servizio di Sicurezza Interna, propone a Netanyahu di «aprire un tavolo di negoziato permanente con i palestinesi in Arabia Saudita coinvolgendo gli altri Paesi sunniti» è perché c’è la crescente sensazione che la monarchia wahabita, custode delle moschee di Mecca e Medina, possa rivelarsi un attore importante nella conclusione del conflitto con i palestinesi. Ad evidenziare le convergenze fra Gerusalemme e Riad è quanto avvenuto a seguito della decisione dell’Egitto di restituire all’Arabia Saudita le isole di Tiran e Sanafir nel Mar Rosso. Poiché si tratta delle terre emerse che controllano l’accesso al Golfo di Aqaba – vitale via d’accesso al porto israeliano di Eilat, già casus belli della guerra del 1967 – Riad ha garantito a Gerusalemme il libero passaggio e inoltre, essendo territori della regione del Sinai, ha assicurato il rispetto delle clausole che le concernono nelle intese di pace fra Egitto e Israele siglate a Camp David nel 1979. Ehud Yaari, veterano fra gli arabisti israeliani, ha chiesto ad al-Faisal se tale passo – compiuto dal ministro degli Esteri saudita, Adel-al Jubeir – porti Riad a diventare, de facto, un terzo partner degli accordi di Camp David firmati da Menachem Begin e Anwar Sadat grazie alla mediazione di Jimmy Carter. La risposta è stata: «Confermo solo la dichiarazione del mio ministro degli Esteri, rispetteremo le condizioni dell’accordo Egitto-Israele». In realtà ciò che Riad chiede a Israele è l’accettazione del piano di pace saudita del 2002 – elaborato dall’allora re Abdullah – che prevede «pace completa fra arabi e israeliani in cambio del ritiro completo dai territori occupati nel 1967» – ovvero Cisgiordania, Gerusalemme Est e alture del Golan. Da qui il valore di quanto avvenuto giovedì: nel giorno in cui Israele festeggiava il 68 anniversario dell’Indipendenza il premier Netanyahu ha ricevuto un messaggio in arabo via twitter in cui gli si chiedeva di sostenere il piano saudita. La sua risposta, anch’essa in arabo, è stata «questa iniziativa, se capace di considerare le nostre preoccupazioni, può essere una base su cui discutere per raggiungere la pace». Ovvero, il negoziato con Riad è in corso. Ed a confermarlo c’è quanto detto da al-Faisal: «L’iniziativa araba può comportare scambi di territori» fra le parti e dunque il ritiro non sarà completo, è oggetto di trattativa. Poiché l’Arabia Saudita di re Salman è alla guida di una coalizione di oltre 40 nazioni musulmane, creata quest’anno per combattere i gruppi jihadisti e ostacolare l’egemonia di Teheran, i segnali di dialogo con Israele creano la possibilità di una cornice pan-sunnita per sbloccare il negoziato con i palestinesi di Abu Mazen, arenato dal fallimento della mediazione americana nel 2014. E’ solo uno spiraglio e resta in balla di una regione infestata dai conflitti ma quando in Medio Oriente due nemici si parlano in pubblico – e non più solo in privato – è opportuno prestare una certa attenzione.
Maurizio Molinari, La Stampa, 15 maggio 2016