Qui Milano – Jewish in the City Ebraismo, conoscere le fonti per comprendere il mondo
Sono rare le occasioni in cui è possibile discutere di Israele senza che si parli di politica e senza polemiche, ma è proprio questo uno degli obiettivi di Kenneth Stein – docente della Emory University e fondatore del Center for Israeli Education – che vuole riportare il discorso sulla storia, sulla sociologia, e soprattutto sui fatti. Presentato da rav Roberto Della Rocca, Stein è stato protagonista dell’incontro alla Fondazione Corriere della Sera intitolato “Israele e l’educazione ebraica oggi”. È stata la giornalista, diplomatica e da poco direttrice del Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah di Ferrara Simonetta Della Seta a condurre un lungo dialogo con Stein che si è aperto con un ragionamento sul senso della storia e soprattutto dell’insegnamento della storia. “Innanzitutto non sapere da dove si viene significa automaticamente non poter sapere dove si sta andando – ha esordito Stein – e va ricordato sempre che Israele è parte di un continuum, non è possibile ragionare della sua storia se si dimentica o se, peggio ancora, si ignora volutamente questo fatto”. Rigoroso nel ripetere che solo le fonti possono raccontare la Storia, ha ribadito che è facile essere d’accordo o meno con il titolo di un giornale, ma non bisogna dimenticare che prima di reagire è necessario sapere, studiare, conoscere. È per molti sorprendente scoprire come gli studenti siano entusiasti di leggere le fonti, un esercizio ormai poco frequentato ma appassionante che li porta a confrontarsi con i fatti, invece di limitarsi alla superficie, dove fioriscono le polemiche. “Ho sempre cercato di combattere contro la mancanza di contestualizzazione, ma anche di essere rigoroso nel lasciare le emozioni fuori dalle mie classi. Prima di arrabbiarsi, prima di rispondere, prima di criticare, bisogna capire, studiare, sapere. L’espressione inglese ‘Before you criticize you need to concretize’, ossia ‘bisogna concretizzare prima di criticare’ significa anche questo”. Un elemento fondamentale del bagaglio ebraico, che ha fatto la differenza nella storia recente del Medio Oriente e che viene spesso trascurato, è che gli ebrei, a differenza degli arabi, sono sempre stati minoranza. E l’esperienza di essere minoranza li ha costretti a sviluppare una capacità di dialogo con gli altri che si è rivelato fondamentale. Negli anni Venti per gli ebrei che si trovavano nell’allora Palestina mandataria era naturale relazionarsi con gli altri, una competenza invece meno sviluppata da chi per tutta la sua storia è stato maggioranza. L’abitudine al dialogo e la consapevolezza del fatto che per sopravvivere può essere necessario negoziare sono due elementi che hanno sicuramente favorito la popolazione ebraica rispetto a quella araba, che non è riuscita ad arrivare ad uno Stato. “Se fossimo stati maggioranza non avremmo mai imparato il talento di essere Ministri degli Esteri prima di avere un Ministero degli Esteri. E ora c’è uno stato in cui gli ebrei non sono più una minoranza”.
Il discorso sulla produzione culturale è stato poi portato al centro del discorso dall’intervento di Simonetta della Seta, che ha ricordato come in realtà il passaggio alla percezione di essere parte di una maggioranza non sia così scontato: anche i processi di produzione culturale, in Israele, sono forzatamente differenti da ciò che avviene dove la cultura ebraica è minoritaria, così come non è banale la relazione tra la creatività nella Diaspora e quella in Israele. “Va ricordato che immaginazione, innovazione e creatività sono fondamentali per l’istinto di sopravvivenza. E va aggiunto che l’educazione e lo studio sono da sempre centrali nella storia ebraica. Siamo quel popolo che legge un Libro, per tutto l’anno, e che quando lo finisce semplicemente ricomincia da capo. Un anno dopo l’altro. Non litighiamo, o per lo meno non litighiamo tanto su quale parte di quel Libro va letta ogni settimana, ma discutiamo animatamente su cosa significa quello che stiamo leggendo. Ed è un dialogo continuo, costante, planetario, che ha portato a scrivere libri e libri. Sul Libro. È attraverso il dibattito che si arricchisce la creatività. Si può decidere di non dedicarsi alla creatività ma in una certa misura si tratta di qualcosa che è parte in maniera profondissima del popolo ebraico”.
La distinzione fra “history”, storia, e “narrative”, narrativa, è un altro elemento fondamentale per qualsiasi ragionamento, ha continuato Stein. Deve essere chiaro che si può chiamare “history” l’accumulo di tutte le fonti disponibili, mentre “narrative”, termine sempre più usato, si riferisce forzatamente a uno sguardo molto più ristretto che diventa un punto di vista sulla storia. Si arriva così alla “black narrative”, per esempio, ma anche alla “women’s narrative” o alla “Palestinian narrative”, ma per raccontare la Storia bisogna utilizzare un procedimento diverso, che accumula, incrocia e confronta più punti di vista. “Ci troviamo in un’epoca – ha concluso Della Seta – in cui l’apprendimento avviene sempre più in maniera concettuale e non cronologica, e forse sarebbe necessario lasciare più spesso che siano i documenti a raccontare la Storia, mentre esiste una grande maggioranza di persone che non sono in grado di astrarsi dalla propria visione filosofica e politica per uscire dalla contemporaneità. Bisognerebbe liberarsi dalle lenti del presente”. L’incontro si è chiuso con l’invito da parte di Kenneth Stein a “considerare questa fine un inizio: sul sito www.israeled.org trovate una grande quantità di materiali, provate a ripartire da lì”.
Ada Treves twitter @atrevesmoked
(31 maggio 2016)