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Rugby, ritorno ai cinque cerchi
(anche) nel segno dell’identità

710x380-ebner-rugby-20160408 Era il lontano 1924 quando a Parigi si disputava l’ultima partita olimpica di rugby. Una Francia che giocava in casa contro gli Stati Uniti, la cui avventura parigina fino a quel momento non era stata delle migliori, con un’accoglienza da parte di atleti, giornalisti e tifosi tutt’altro che calorosa. Ma nonostante questo, riuscirono a infliggere una sonora sconfitta ai loro ospiti, con uno storico 17-3. Ma da allora, un po’ anche a causa degli episodi sgradevoli che si erano verificati intorno al rugby, si preferì tenerlo fuori dalle discipline olimpiche. Vari furono i tentativi di reinserirlo nel corso del tempo, e finalmente quest’anno il grande ritorno, a novantadue anni di distanza. Si tratta non più di rugby a 15 ma di rugby a 7, e ci sono sia un torneo femminile sia uno maschile. Tra i dodici uomini che compongono la rosa degli Stati Uniti c’è anche Nate Ebner, conosciuto finora per essere uno dei pochi ebrei a giocare nella National Football League, la maggiore lega professionistica nordamericana di football americano, e adesso anche come un insolito – ebbene sì – rugbista a Rio. “Il fatto che faremo parte della squadra degli Stati Uniti – ha detto – e che di conseguenza il pubblico dello sport statunitense avrà un’altra squadra da guardare, a cui appassionarsi e con cui divertirsi, facendo il tifo del suo paese, è qualcosa di immenso”.
“Appena ho saputo di essere stato scelto per la squadra olimpica, ho provato molte emozioni diverse” ha raccontato Ebner. “Ero emozionato, felice, si realizzava un sogno. Ho avuto la conferma che avevo fatto tutto il possibile e lavorato al massimo negli ultimi mesi e soprattutto nelle ultime settimane”. Un allenamento difficile, perché il rugby, e specialmente il rugby a 7, è un gioco molto più dinamico e rapido del football, che richiede un’agilità e dunque un allenamento totalmente diverso. E per essere a Rio, Nate ha infatti dovuto prendersi una pausa dai New England Patriots, la squadra per cui gioca da quattro anni a football. Ma ne valeva la pena: “Era una decisione difficile da prendere, ma in fondo quando vedi uno sport con cui sei cresciuto tutta la vita tornare ai Giochi olimpici, come puoi non esserne parte?”, ha dichiarato. “Non volevo vivere con il rimpianto di non averci provato, non volevo dover pensare a quale esperienza sarebbe stata se fossi entrato in squadra”. E così ha optato per questa scelta non scontata e non tradizionale, un prestito a un’altra disciplina decisamente eccezionale sia dal suo punto di vista sia da quello della squadra per cui gioca. Ma il sostegno non gli è mancato, fin dall’inizio: “Tutta l’organizzazione dei Patriots ha capito che sono un giocatore di rugby fin dal momento in cui mi hanno preso nel 2012, e capiscono anche che questa è l’opportunità della mia vita”, ha affermato in un’intervista a Sports Illustrated. “Sono fortunato che mi abbiano lasciato coglierla, e senza questo non potrei nemmeno essere qui. Poterlo fare – le sue parole – e poi poter anche essere riaccolto in un’organizzazione di prima classe come i Patriots è una benedizione”.
Nate ha 27 anni ed è nato e cresciuto in Ohio, dove fin da piccolo gioca a rugby. Una passione nata ma soprattutto coltivata grazie a suo padre, Jeff, preside di una scuola ebraica e lui stesso ex rugbista, che lo ha affiancato negli allenamenti di tutta la sua gioventù. Ed è sempre grazie a lui che ha potuto coltivare la sua identità ebraica: “Mi ha insegnato l’importanza di essere ebreo – le parole di Ebner – ricordandomi sempre che dovevo dare il massimo in ogni cosa e comportarmi sempre nel modo giusto”. Oggi, sono i suoi nonni a ricoprire questo ruolo: “Si assicurano sempre che io sia sistemato per le festività ebraiche – ha detto – e che io mi ricordi le mie origini”. Nel frattempo, a diciassette anni Nate è diventato il più giovane atleta mai entrato nella squadra nazionale di rugby a 7, per poi giocare anche alla Ohio State University prima di svoltare e passare al football. Una scelta dettata dal desiderio di una nuova sfida, resa ancora più complicata dall’uccisione del padre nel 2008 in un tentativo di furto per strada. “Tutto è nato da una conversazione molto seria avvenuta con lui prima che morisse”, ha raccontato Ebner. “Andavo già nella direzione di una buona carriera con il rugby, ma lui credeva che io dovessi aspirare a giocare nella NFL e anche io lo volevo. E quindi all’epoca ho lasciato il rugby nello specchietto retrovisore, conscio cioè del fatto che il football non è qualcosa che dura molto a lungo. Dura un po’, poi finisce tutto. Con quella consapevolezza, sapevo che sarei tornato prima o poi al rugby, in un modo o nell’altro”.
E insomma, con il grande ritorno del rugby ai Giochi olimpici il modo lo ha trovato. Il rugby a 15 fu presente in quattro edizioni dei Giochi olimpici (1900, 1908, 1920 e 1924), e deve la sua introduzione all’opera di Pierre de Coubertin, fondatore dei moderni Giochi e tra i maggiori sostenitori della disciplina in Francia. Fu la pessima immagine che il rugby diede si sé nel 1924 che portò alla decisione di escluderlo dalle discipline olimpiche. Quando la squadra americana arrivò da oltreoceano dovette infatti affrontare la pessima accoglienza francese: i funzionari della dogana rifiutarono l’ingresso alla squadra, che guadagnò terra facendosi strada da sola, i giornali ebbero parole sempre più dure sui giocatori, a cui vennero sottratte le divise pochi giorni prima del primo incontro, e venne addirittura negata agli statunitensi la possibilità di allenarsi allo stadio di Colombes. Molti giocatori non poterono nemmeno avventurarsi fuori dall’hotel, per evitare di essere fatti oggetto di pesanti insulti e perfino sputi. Il culmine fu raggiunto nella finale contro la Francia, durante la quale gli spettatori francesi inferociti dalla sconfitta invasero gli spalti dei tifosi ospiti ed il campo per picchiare tifosi e giocatori statunitensi, difesi dalla polizia e dai giocatori francesi. Vari furono poi i tentativi di ripristino, ma da quando De Coubertin lasciò il Comitato Olimpico nel 1925 il rugby perse uno dei suoi maggiori sostenitori, e fino a oggi non è più riuscito a farsi strada. Ma ora i tempi sembrano maturi, ma dopo 92 anni gli spettatori rischiano di essere un po’ arrugginiti. Cosa devono aspettarsi secondo Nate Ebner? “Più che altro, cosa non dovrebbero aspettarsi! Meglio non farsi travolgere dal tentativo di capire le regole – il suo consiglio – sono troppo confuse. È più appassionante osservare i passaggi indietro, i calci e il modo in cui i giocatori si muovono in campo. È un gioco così emozionante, c’è sempre qualcosa da guardare”.

f.m. twitter @fmatalonmoked

(8 agosto 2016)