Il Burkini e la crisi d’Europa. Israele è un modello possibile

schermata-09-2457643-alle-12-37-04Una decina o più di anni fa, un collega dell’Università di Gerusalemme si trovava in visita a Parigi all’Istituto Nazionale di Studi Demografici (INED), la mecca francese dei demografi. L’INED è un ente pubblico sostenuto da fondi dello Stato. Appena entrato nel grande e prestigioso istituto, il collega – un ebreo di lingua madre russa moderatamente tradizionalista che all’epoca era solito tenere in capo la kippah – fu avvicinato dal suo ospitante – uno dei più noti demografi francesi – che gli ordinò di togliersi immediatamente il piccolo copricapo fatto all’uncinetto. Spiegazione: qui siamo nei locali di un’istituzione statale francese, e lo Stato francese laico non tollera l’esibizione in pubblico di simboli religiosi. Inutile aggiungere che lo zelante dirigente dell’INED era di origini ebraiche, come oggi si dice in tono semi-cospiratorio, o in parole più semplici, era un ebreo tale quale il mio collega gerosolimitano. Tutto questo avveniva diversi anni prima che in Francia e in altri paesi europei si cominciasse perfino a intuire la possibilità di tensioni fra i gusti e le norme di vasti settori della popolazione immigrata negli ultimi anni o figlia di precedenti ondate immigratorie, e ancor meno la possibilità di atti di terrorismo compiuti da gruppi estremisti di matrice islamica sul suolo del continente. Il mio collega tornò scioccato da Parigi e mi giurò che mai più avrebbe messo piede all’INED. L’episodio della kippah parigina torna di attualità in questi giorni in cui si discute dell’ammissibilità del Burkini (un capo di abbigliamento inventato dieci anni fa) sulle spiagge francesi e italiane. Suscita interesse la trasversalità delle prese di posizione in un senso o nell’altro rispetto ai convenzionali schieramenti politici e religiosi. Personalmente, su questa questione, ho provato affinità con le parole di monsignor Nunzio Galantino, vescovo e segretario della Conferenza episcopale italiana. Alla domanda di Luigi Accattoli sul Corriere della Sera: “[Papa] Francesco [ha detto] che se un donna musulmana vuole portare il velo deve poterlo fare”, Monsignor Galantino risponde: “Lo dico anch’io e penso alle nostre suore, penso alle nostre mamme contadine che lo portavano fino a ieri e alcune lo portano ancora oggi. Lo stesso, si capisce, deve valere per un cattolico che voglia portare una croce, o per un ebreo che indossi una kippah”. Torniamo al punto di partenza e rileviamo dunque due posizioni, una uniformante e quindi autoritaria, e una flessibile e quindi pluralista. È avvilente constatare come su queste questioni si siano mescolati due filoni di discorso solo parzialmente connessi: uno più specifico riguardante la posizione della donna, l’altro più ampio sulle libertà e le regole della convivenza nelle società occidentali ormai irreversibilmente multicuturali in seguito ai rivolgimenti demografici degli ultimi anni. È increscioso che il dibattito in corso sulle più ampie e complesse questioni di ordine filosofico, giuridico e politico sia precipitato al tema riduttivista del modo di presentare il corpo umano o anche del rapporto interpersonale fra i sessi. La discussione sul Burkini si trova chiaramente in un vicolo cieco. Di fronte all’infinita gamma di opzioni di abbigliamento osservabili su tutte le spiagge e che coinvolgono equamente – ricordando Cecco Angiolieri – donne giovani e leggiadre e vecchie e laide, vi è chi afferma che il Burkini, la quasi totale copertura del corpo femminile, è un’imposizione maschilista. Ma secondo la consolidata tesi femminista, anche la sua scopertura è uno sfruttamento maschilista. Come dimostrare allora che non lo siano anche le sobrie opzioni intermedie? Il tentativo di misurare con il centimetro il rispetto delle leggi sul comune senso del pudore fu in realtà attuato nei primi anni ‘50 dal ministro degli interni Mario Scelba che sguinzagliava sulle spiagge italiane poliziotti i quali, dopo attenta misurazione della superficie tessile sul corpo delle bagnanti, rilasciavano a volte regolare contravvenzione. La grottesca disposizione di ispirazione democristiana non durò a lungo. La sola conclusione possibile è che le donne (e gli uomini) si vestano come meglio credono purché lo facciano liberamente. L’imposizione da parte di altri non è facile da dimostrare.
Non è invece mai stato affrontato problema fondamentale di quale e quanta sia la diversità tollerabile in una società democratica e sempre più eterogenea – che in paesi come gli Stati Uniti o Israele ha trovato soluzioni, sia pure parziali e non del tutto soddisfacenti. In Europa diversi passati test della differenza accettabile hanno coinvolto anche gli usi e i costumi tradizionali delle comunità ebraiche. È stata messa in discussione la legittimità della macellazione rituale di animali, che in alcune nazioni è oggi illegale, e vi è chi ha cercato, per ora senza successo, di rendere illegale la circoncisione. Evidentemente ciò che per gli uni è sacrale, per gli altri è barbarie, ma da questo conflitto di principi non è mai maturata una filosofia giuridica che compiutamente ammetta la pluralità delle ipotesi. L’Unione Europea è una confederazione imperfetta di Stati nazionali i quali, ognuno a modo suo, si illudono di poter preservare l’omogeneità socio-culturale dell’etnia o della cultura fondante. In un paese come il Belgio le culture fondanti sono addirittura due o tre. Ma, al di là di istituzioni pan-europee che spesso con successo hanno creato flussi e processi transnazionali, un concetto unificato di che cosa sia veramente l’identità europea non è mai emerso o maturato. Di conseguenza le norme su ciò che è consentito o meno, e soprattutto, su chi abbia o meno il pieno diritto di appartenere alla società civile si riducono a un’interpretazione riduttiva di quanto esteticamente o normativamente sia consuetudinario in ciascuna nazione. La norma suppostamente universale non è altro che la norma particolare del gruppo egemone. Negli Stati Uniti, sia pure in maniera imperfetta, il codice di base è costituito dal rispetto per la Costituzione che tutti i cittadini sono supposti conoscere e seguire. Ma in Europa la Costituzione è un gigantesco documento che nessuno conosce e che più che stabilire dei superiori principi morali, si dilunga in molte disposizioni operative. È interessante, in questo caso guardare al caso di Israele. Qui, attraverso innumerevoli problemi perfino in aumento negli ultimi anni, la prassi sta nel riconoscimento dell’esistenza simultanea di quattro maggiori tribù (nelle parole del presidente Ruvi Rivlin). Ognuna di queste gode di una tacitamente riconosciuta autonomia, epitomizzata dai quattro sistemi separati di pubblica istruzione, tre ebraici – ortodosso religioso, religioso nazionale, nazionale secolare – e uno arabo. Non mancano all’interno della società israeliana pregiudizi, tensioni e momenti di violenza civile. Il pregiudizio, riconosciamolo, colpisce primariamente chi, rispetto alla maggioranza, si veste diversamente, o ha un colore di pelle diverso, o un accento diverso. Ma, oltre alla sanzione legale contro la discriminazione, esiste anche il tentativo di trovare soluzioni che diano a ciascuno la possibilità di avere il suo, senza infrangere i diritti di tutti. Un esempio minimo sono le piscine pubbliche dove in certe limitate ore durante la settimana è consentito l’accesso ai soli uomini o alle sole donne. Le università israeliane hanno introdotto programmi di studio finalizzati alla popolazione molto ortodossa o araba, perfino con classi separate. L’obiettivo è di facilitare l’inserimento di questi gruppi altrimenti marginali nel filone centrale della società. La progettualità deve necessariamente essere integrazionista ed egualitaria, ma per raggiungere lo scopo sono possibili diverse vie: quella di consentire la diversità o quella di pretendere di abolirla. L’essenziale è il progetto. Ma in Europa il progetto veramente integrazionista non è mai nato o non è cresciuto abbastanza. La “crisi del Burkini”, fatta salva la necessità di lottare con ogni mezzo per prevenire e combattere il terrorismo, è in realtà la crisi dell’identità europea.

Sergio Della Pergola, Università Ebraica di Gerusalemme, Pagine Ebraiche Settembre 2016