ORIZZONTI Bernard-Henri Lévy: “Ecco la ricetta delle democrazie per sconfiggere i jihadisti”

Siamo cambiati, ammette Bernard-Henri Lévy. L’imprevista dilatazione del secolo breve, il rinvio ad libitum della fine della Storia, il terrorismo, la rinascita di muri e identità ostili hanno fatto invecchiare precocemente le speranze di quanti come lui, la quintessenza del filosofo engagée, avevano sperato che l’Europa prima e poi l’evitabile mattanza balcanica mettessero un punto alla dialettica tra pace e guerra. Brillante, eclettico, sempre schierato contro i diritti negati, famoso come un brand e consapevole di esserlo al punto da destare molte antipatie in Francia, BHL parla con La Stampa delle paure, le sfide, le illusioni perdute e quelle ancora in piedi a 15 anni dall’11 settembre 2001.

A che punto siamo oggi?
«Allo stesso punto. Ma peggio. Il terrorismo ha guadagnato terreno. E’ entrato nelle nostre vite. Ha modificato i nostri comportamenti. Fa parte del nuovo ordine delle cose. Non è più l’eccezione ma la regola. Ricordo quando gli europei irridevano gli israeliani costretti a vivere con la minaccia costante del terrorismo. Ebbene, adesso eccoci. Si assiste a un’israelizzazione delle società europee. Avremo però lo stesso sangue freddo degli israeliani? Saremo attenti come loro a non prenderci delle libertà con la libertà? Lo spero».

In che modo siamo cambiati, attentato dopo attentato?
«Siamo in un nuovo mondo. Ricordo, non senza una certa nostalgia, quello antico in cui si poteva andare all’aeroporto all’ultimo minuto, beffarsi delle religioni senza rischiare la vita, fare la spesa in un magazzino kasher o, volendo, celebrare una messa in chiesa, entrare in un luogo pubblico senza perquisizione della borsa e, nel caso degli intellettuali, parlare di letteratura o scrivere romanzi d’amore senza sentirsi disertori rispetto alla lotta principale. I tempi, poco a poco, sono cambiati, lo spazio sociale è cambiato».

Sono cambiati anche i valori, le idee, le leggi?

«Tutto. Siamo diventati i contemporanei di questo nuovo mondo imprevedibile solo 20 anni fa».

È un cambiamento definitivo?
«Non credo che si tornerà indietro in breve. Il terrorismo, al contrario, non farà che sperimentare altri modi di essere e inventare altri scenari neri. Comunque questa è la nuova legge a cui bisogna essere pronti: i peggiori incubi diventeranno reali, le più folli sceneggiature saranno girate per davvero dai registi del grande spettacolo terrorismo, la loro immaginazione sara’ senza limiti. In questo senso saranno sempre in anticipo sui loro avversari».

Con il senno di poi: aveva ragione Samuel Huntington, siamo o non siamo allo “scontro delle civiltà”?
«Cominciamo con il non generalizzare non è “il mondo musulmano” a creare problemi ma alcuni elementi finora minoritari di quel mondo. E non creiamo neppure false simmetrie: se si cerca una “responsabilità” non va divisa in parti uguali tra la “civiltà occidentale” e quella parte di mondo musulmano. Sono loro, i fondamentalisti islamici o gli jihadisti, ad aver dichiarato guerra al mondo e all’occidente. Il resto del mondo, a partire da Europa e Stati Uniti, si difende. A posteriori, la formula “scontro delle civiltà” è totalmente idiota. Le civiltà non sono blocchi e quella musulmana, posto che esista, non è omogenea. Non dimentichiamo mai che a Nizza una vittima su tre si riconosceva nell’islam».

Gli ultimi due anni sono stati molto duri per la Francia e per il resto del mondo, sotto scacco dei fondamentalisti. Stiamo rispondendo correttamente al nuovo terrorismo?
«Globalmente si, si può sempre migliorare ma la risposta è buona. Si tratta di combattere su tre fronti. Lo Stato Islamico in Iraq e in Siria, perchè là c’è il cervello dello jihadismo , il tipo d’uomo e il modello di vita in cui s’identificano questi bastardi. Una repressione impietosa di chi, in Francia, cade nel terrorismo o ne fa l’apologia. Infine la democrazia: tutte le forze politiche devono unirsi per difendere i principi dello stato di diritto vigilando al massimo affinché non siano messi in pericolo da esigenze di polizia e guerra».

I musulmani d’Europa denunciano un clima crescente d’islamofobia, diffidenza, isteria e pregiudizi. Tutto si riassume nell’estate del burqini. È cosi?
«È vero. Questa isteria anti-musulmana esiste e cresce in certi settori della società. Ma questo non impedisce, ahimè, che la moltiplicazione dei burqini sia spiacevole. Non è un caso che siano comparsi insieme all’islamismo radicale. Non che chiunque indossi il burqini sia una potenziale terrorista. Ma la regola d’abbigliamento sottesa coincide con l’attuale pulsione reazionaria interna all’islam. Portare il burqini aderisce a una credenza profonda dell’ideologia jihadista: la diseguaglianza tra uomini e donne, l’impurità del corpo femminile, l’obbligo di celarlo».

Dopo l’11 settembre i musulmani, sentendosi accusati, si arroccarono in difesa. Oggi, dopo il Btaclan, Bruxelles, Nizza, è diverso?
«Ci sono due fenomeni contrapposti. Da un lato un movimento all’indietro, una regressione, come prova la storia del burqini. Ma c’e anche una presa di coscienza crescente del fatto che le comunità musulmane non possano più accontentarsi di reclamare un “diritto alla differenza” ma che abbiano invece l’obbligo di abbracciare il credo repubblicano e, per farlo, di riformare la parte dell’islam che potrebbe porvi ostacolo».

Le donne musulmane sono l’avanguardia dell’emancipazione dell’islam o, come nelle più fosche previsioni di Houellebecq e Boaualem Sansal, il cavallo di Troia del fondamentalismo?
«Entrambe le cose. È più che mai attraverso loro che il mondo musulmano ha le maggiori chance di riformarsi. Sono loro che muovono le mentalità e tengono in alto il vessillo della rivolta contro chi con il Corano giustifica l’asservimento. Ma per le stesse ragioni le forze più conservatrici si servono più e più di loro per assicurarsi il percorso inverso. È l’insegnamento della vecchia saggezza greca: la stessa parola, pharmakon, indica la medicina e il veleno. Vuol dire che dalla stessa parte della società vengono il deserto e la salvezza”.

Cosa hanno in comune i qaedisti dell’11 settembre e l’Isis?
«Sono la stessa cosa. Hanno in comune lo stesso odio per la democrazia e l’occidente. Lo stesso antisemitismo furioso. La stessa paura folle e lo stesso odio per le donne. La stessa volontà d’impedire l’emergere di una società civile degna di questo nome dentro al mondo arabo e musulmano. Il terrorismo di 15 anni fa però disprezzava lo Stato, negava la forma di Stato in quanto tale. Mentre la nuova versione del terrorismo combina i due modelli, il non Stato e lo Stato, il Califfato de-territorializzato e ri-territorializzato».

Cosa resta delle primavere arabe? Molti attribuiscono alle rivolte del 2011 la responsabilità del nuovo terrorismo.
«Questo terrorismo è iniziato 10 anni prima delle primavere arabe. Non si può dunque dire che ne sia la conseguenza. Credo piuttosto il contrario. Prima delle primavere arabe c’erano due sole opzioni nel mondo arabo e musulmano, il despotismo o l’islamismo. L’islamismo, se preferite, era l’unica forma di opposizione possibile alla tirannia. Un’idea terrificante. Dopo le primavere arabe e’ emersa una terza opzione, una parte delle opinioni pubbliche sa che tra l’islamismo e la tirannia c’e una terza via, la democrazia. Indubbiamente per ora i democratici sono sconfitti. Pochi. Irrilevanti. Ma esistono. Col risultato che per la prima volta in quella parte del mondo l’islamismo non appare più come la sola forma di opposizione possibile all’autoritarismo. E questo è molto importante».

Cosa possiamo fare per la Libia?
«Quanto non abbiamo fatto nel 2011. Ossia assistere quei libici che, sulle rovine del gheddafismo e della sua non società, volevano inventare una repubblica e una democrazia araba. Il solo errore che allora noi tutti commettemmo fu di sentirci appagati con l’esigenza della democrazia quando la dittatura era caduta. E’ quell’errore che dobbiamo riparare».

E per la Siria? È troppo tardi?

«È troppo tardi certamente per le centinaia di migliaia di morti stritolati nel duplice tritacarne dello Stato Islamico e dello stato di Bachar al Assad. Ma per gli altri, i sopravvissuti, i milioni di uomini, donne e bambini che hanno preso la via dell’esilio per fuggire dai barbari non è troppo tardi. Sin dall’inizio bisognava fare in Siria quanto fatto in Libia. C’e sempre tempo».

È nel Mediterraneo che l’Europa si gioca l’anima, schiacciata tra l’islamismo e l’ultradestra?
«Il campo di battaglia è esattamente quello. E si vede bene da 20 anni: è dall’emergere dell’islamismo radicale in Algeria che le due cose sono strettamente legate e al tempo stesso complici. A proposito del massacro in Algeria mi ricordo quando Jean-Marie Le Pen diceva che tra la “jallabya degli islamisti” e i “jeans cosmopoliti” dei cittadini sgozzati la sua scelta andava del tutto naturalmente alla jallabya».

Passeremo dal secolo americano al secolo russo?
«La Russia sostiene oggi l’estrema destra nella sua lotta contro l’Europa e le sue istituzioni. Non fa nulla contro L’Isis, che è il miglior argomento del suo alleato Assad. Perché vinca la Russia però devono vincere l’estrema destra, l’Isis e Assad. Siamo gia là? Per fortuna ancora no!».

Francesca Paci, La Stampa, 11 settembre 2016