Sanità e santità
Il manifesto è diviso in due. Nella parte superiore campeggiano, in un sfondo di chiarezza “solare”, quattro figure, due donne e due uomini, anzi due “femmine” e due “maschi”, giovanili, sorridenti, sicuramente “sani” (ah, le parole, quando contano per classificare, quindi separare, dividere!), verrebbe quasi da dire “ariani”, che osservano lieti in volto chi di quel poster è destinatario. Ossia tutti noi. Sembrano i bagnini di “Baywatch”, una nota e fortunata serie televisiva di qualche lustro fa. E come questi ultimi, hanno una missione da compiere: salvare qualcuno attraverso le «buone abitudini da promuovere». Nel caso nostro, evidentemente, salvare il Paese dal declino demografico. Nella parte inferiore del medesimo, invece, altrettante figure (o di più? Volutamente non si comprende al primo sguardo, bisogna semmai affinarlo), nelle intenzioni dei suoi ispiratori assai diverse, attraversate come sono da una opacità “spiaggiata”, seppiosa, granulosa, ovvero una sorta di condizione umbratile che fa da velo alla comprensione immediata della loro condotta ma della quale, aguzzando lo sguardo, si capisce ben presto la presunta irritualità. Se i primi quattro sorridono, infatti, e ci guardano negli occhi, gli altri, quelli che stanno “di sotto”, non hanno nulla da ridere (se non in maniera stereotipata e quindi ebete). Non guardano altri che non siano se stessi, non comunicano nulla che non siano i loro gesti solitari, ovvero dedicati ai piaceri individuali: fumo, alcool, plausibilmente altro ancora, di assolutamente inconfessabile se non a denti stretti. Sono «i cattivi “compagni” da abbandonare», lo afferma il testo di accompagnamento, nel nome di un’occorrenza incontrovertibile, quella dettata dalla necessità di ricorrere, evidentemente ripristinandoli, ai «corretti stili di vita, per la prevenzione della sterilità e dell’infertilità». Due o tre considerazioni, di passata, tra le tante possibili, su questo “manifesto”, che segue una successione di infelici manifestini e depliant, frettolosamente ritirati in ventiquattro ore a seguito di un’alzata di scudi collettiva. Il tutto al netto dei fantasmi sulla “razza”, a più riprese evocati in questi giorni dalla stampa e nelle ripetute reazioni critiche. Intanto l’origine delle sue immagini. Evidentemente ai tempi di Instagram non c’è molto da riciclare. Se la prima foto, quella superiore, dei salutisti indoeuropei-caucasico-ariani è tratta da un sito anglosassone di ortodonzia, la seconda, quella inferiore, di individui dall’origine razzialmente “confusa” (l’eufemismo vuole essere un po’ ironico), parrebbe essere una istantanea che circola negli Stati Uniti, ed in particolare in Arizona, a corredo iconografico dei programmi contro le tossicodipendenze. Ne ha fatto uso anche Narconon, agenzia affiliata a Scientology, tanto per intenderci. I cliché racchiusi nelle immagini sono comunque agevolmente intuibili. Rimandano ad una concezione della società basata, tra le altre cose, sulla miscela di familismo, perbenismo, salutismo, “monotipologia” (c’è un solo canone al quale rifarsi, al netto dell’evoluzione sociale, della diversificazione e della discussione su diritti civili) insieme a molto altro ancora. Il tutto esemplificato dalla frattura tra la “chiarezza” dei primi e il colore sfumato, ambiguo, dei secondi. Dunque, al netto di tante altre cose che vengono in mente, dopo il ripetersi della selva di polemiche e l’ennesimo ritiro del materiale, che cosa si può aggiungere davanti ad una campagna di promozione che è stata vissuta come una provocazione? Poniamoci un’altra domanda, tanto per iniziare: hanno sbagliato al Ministero? Senz’altro, dal punto di vista dei tanti lettori critici; non la stessa cosa può invece essere detta dal punto di vista di quella dirigenza ministeriale che si è adoperata per realizzare l’infelice campagna. Viene da pensare che una certa idea (immagine?) della società ce l’abbiano per davvero in testa, ed è quella che cerca, non senza affanno, di mettersi in sintonia con l’edonismo pauperista (un ossimoro?) di una parte dello storytelling dominante: “tornerà il tempo dell’abbondanza, basta volerlo”. Fate cose, datevi una mossa, fate figli. Tutto si aggiusterà, in qualche modo. Da ciò, in opposizione all’ideologia del “debito a prescindere” (quella che la tecnocrazia europeista offre invece a piè sospinto come chiave di lettura del tempo corrente e come instrumentum regni, di fatto paralizzando ogni scelta e angosciando le persone rispetto al loro futuro), deriva il conativo invito a consumare pur non avendo risorse e non potendo provvedere a quella che un tempo si sarebbe chiamata “accumulazione originaria” (l’accantonamento di beni a futuro utilizzo per beneficiarne in termini di investimento). Anche per questa ragione invitano a “fare figli” (espressione quasi atavica), benché ci si trovi in mancanza di opportunità, circostanze, denari ma anche – e a volte soprattutto – desiderio in tal senso. I figli, secondo questa logica, sono dei “beni” di investimento. Frutteranno a loro tempo. Quanto meno alla società di cui saranno parte. Basta, quindi, con l’individualismo che “corrompe”, ovvero quello dei diritti civili che fanno a pugni, esaltando la centralità della persona come soggetto pensante e autonomo, con gli interessi della “comunità nazionale”. Se questa è una delle premesse ideologiche della campagna del ministero della Salute allora deriva da essa, in immediato riflesso, un’altra immagine della nostra società, quella di una collettività ricondotta ad una sorta di eterno stato adolescenziale, dove il rischio implicito è sempre e solo quello che le condotte occasionalmente trasgressive possano tradursi in devianze permanenti. A detrimento degli interessi collettivi e a danno addirittura della stessa demografia nazionale. Le trasgressioni da poco, tanto per capirci proprie di coloro che sono ancora troppo “piccoli” per essere pienamente emancipati ma si sentono al contempo troppo “grandi” per continuare a fare i “bambini” (quindi le sigarette fumate di nascosto, le birre bevute in eccesso, l’”erba” rollata in una canna per poi andare anche ben oltre), sono ciò che si imputa come origine del mutamento demografico che stiamo vivendo. Va detto, chiosando l’impatto del manifesto ministeriale, che un tale immaginario stadio intermedio dei popoli “evoluti”, connotato tanto dalla ricerca del godimento immediato come dal rischio di prospettiva, più che demandare ad una condizione anagrafica o a “cattivi compagni” è in realtà il target prediletto da un certo discorso pubblicitario per incentivare il consumo compulsivo. Che sia di beni legali così come di sostanze illegali. Laddove questo si realizza con la deresponsabilizzazione delle persone, per l’appunto ridotte alla sollecitazione di un inappagamento permanente. Si tratta quindi di un modo di presentare nel medesimo tempo la gratificazione lecita e la trasgressione illegittima. In questo contesto di fondo, l’infelice succedersi di campagne “promozionali” sul cosiddetto “fertility day” non costituisce una défaillance occasionale ma la cifra di una reale volontà, quella che intende martellare su una concezione degli individui, e delle relazioni sociali, dove la “differenza” si trasforma in “trasgressione” tout court. Il discorso è molto retrogrado, letteralmente “reazionario” (come si sarebbe detto un tempo), fondandosi non tanto sui rimandi ad un qualche «manifesto della razza» bensì su una visione autoritaria di fondo, quella che apparteneva anche al trascorso clericalismo, diffusa soprattutto in società ancora fortemente ruraliste, dove il grado di pluralismo civile, culturale, comportamentale era molto contenuto e comunque vissuto quasi sempre in quanto devianza. Come ad un popolo di bambini “cresciutelli” si torna quindi a dire, con atteggiamento paternalista ma anche terrorizzante (non c’è “padre” se questo non lega la sua autorità, nel momento della trasgressione della norma da parte dei figli, una qualche punizione cataclismatica, a partire dalla perdita di sé), che è bene che non ci si attardi sulla “promiscuità”. Probabilmente è questa la parola chiave alla quale rimandare, per interpretare la dialettica capovolta espressa dal manifesto ministeriale nei suoi molteplici significati impliciti. Il quale contrappone, in maniera quasi demonizzante, all’esperienza di sé, alla ricerca di un percorso come manifestazione di autonomia e quindi di maturazione (tutte cose in fondo negative poiché centrate sull’egoismo individuale), la riscoperta di una vocazione, quella di appartenere ad un comunità che esiste (anche e soprattutto) perché “fa figli”. Unendo elementi tra di loro anche molto diversi come la fertilità, la natalità, la socialità così come la sessualità. La scommessa di fondo, quindi, è di tenere insieme la pulsione al consumo (mortificata nella vita quotidiana non solo dall’oggettiva carenza di risorse delle famiglie ma anche dalla “scoperta” che si può vivere in maniera decente senza ricorrere ossessivamente all’accaparramento di beni inutili) e la propensione individualista che essa porta con sé, con una rinnovata, anacronistica e rutilante richiesta di “fare società” generando prole e vivendosi, in quanto tali, come parte di una “comunità sana”. Parrebbe una contraddizione in termini, qualcosa di prossimo al nonsense, intendendo in fondo coniugare due istanze (individualità del consumo e rigenerazione demografica collettiva) che sembrano avere non troppi punti in comune. Tuttavia il terreno di incontro, a ben pensarci, è il convincimento che con queste campagne di dirigismo culturale si possa ripristinare quanto meno il simulacro di un comando politico, e quindi di un indirizzo sociale, servendo il primo a dare sostanza al secondo, altrimenti eroso dalla crisi del ruolo delle élite nazionali nell’età che stiamo vivendo. Non di meno, sulla costruzione della nozione di “sano” e di “sanità”, insieme all’idea di corpo, sottesi le une e l’altro dall’iconografica del manifesto, ci sarebbe di che discutere ancora. Al netto della banalità che si accompagna, come un bislacco destino, all’agire della “comunicazione” ministeriale. Poiché la banalità, dovremmo oramai ben saperlo, in quanto indice di mediocrità del potere, non è mai un peccato veniale bensì mortale. Non siamo mai stati per davvero moderni, se è questa la sola risposta che riusciamo a formulare alla transizione demografica che l’area euro-mediterranea sta nel suo complesso vivendo da diverso tempo. E ci meritiamo di “morire” della nostra cristallizzata senilità, qualora una classe dirigente “giovanilista” non sappia esprimere altro che non siano esortazioni dissonanti rispetto alla realtà delle cose. Le quali, tuttavia, sanno manifestare la dura replica nella loro oggettività. Che piaccia o meno.
Claudio Vercelli
(25 settembre 2016)