Da un anno all’altro – I ghetti e noi

ghettoCom’è consuetudine, forse anche per un gesto scaramantico, il passaggio di fine anno, più precisamente la soglia di attraversamento tra un anno e l’altro è l’occasione per trarre un bilancio o almeno segnare un tempo. Vorrei farlo per ciò che ci siamo detti e soprattutto per ciò che ci siamo non detti in questo 5776/2016. Ci siamo detti tantissimo sul ghetto di Venezia, un luogo che è una data, che è un simbolo. E ce lo siamo detti in molti modi e con molti percorsi: teatrali, artistici, riflessivi, immaginari. Forse come non mai abbiamo ragionato di ghetto con la sensazione che quello spazio fa parte strutturale del nostro presente, della struttura urbana delle città contemporanea, ma anche forse dei molti ghetti mentali, prima ancora che urbani o che popolano il nostro vissuto – emozionale prima ancora che intellettuale. Ci siamo detti in un qualche modo che quell’anniversario aveva valore per questo tempo presente. È stata una riflessione ricca nei propositi di chi l’ha costruita. Forse quella riflessione ha un significato anche per il contesto emozionale, culturale, umano in cui è avvenuta. Quel significato non so se corrispondesse al progetto iniziale, forse no. In ogni caso mi sembra sia interessante rifletterci. Ho la sensazione che quel messaggio intorno alla fisionomia del ghetto abbia incontrato più il linguaggio dell’esclusione, della separazione che non la riflessione sulla possibilità dell’intreccio o dell’ibrido. In altre parole che quella dimensione del ghetto nata, almeno mi pare, nelle intenzioni di chi promuoveva quella riflessione interculturale e interdisciplinare si sia lentamente riversata in una fisionomia del ghetto non come segregazione, ma come opportunità e paradossalmente si sia collocata nel paesaggio culturale di un’Europa smarrita, disperatamente alla ricerca di se stessa e dunque affascinante. Forse lo è se pensiamo che quello che abbiamo da perdere sia più attraente di ciò che potremmo ottenere o ritrovarci tra le mani. Insomma una cosa in cui meglio evitare la tentazione del futuro e tornare a un passato protetti dalla consuetudine, dalla certezza delle buone cose di prima. Il futuro ci ha tradito e dunque meglio tornare nell’alveo del passato, stando “tra noi”, non contaminandosi, conservando noi stessi. Siamo senza futuro? O il futuro è la riedificazione di un passato di cui ci sentiamo orfani?

David Bidussa, storico sociale delle idee
Pagine Ebraiche, ottobre 2016


La fotografia è stata scattata da Davide Calimani per Coopculture.