Tra insicurezza e fiducia

Sara Valentina Di Palma“È scritto baSukkòt teshevù shivàt yamìm – risiederete nelle capanne per sette giorni (Levitico 23, 42)”, ricorda il Kitzùr Shulchàn Arùch (cap. 135, Norme riguardanti l’abitare nella Sukkà) in memoria della precarietà dei ripari che accolsero i figli di Israele una volta usciti dall’Egitto. Anche io ripasso, con i bambini che escono dal Talmud Torà, le regole che contraddistinguono una Sukkà rispetto ad una abitazione usuale. Come poterono trovare nel deserto il materiale per costruire delle capanne, mi sento chiedere.
Non tutti in effetti concordano sul fatto che fossero vere e proprie capanne, e gli stessi Maestri della Mishnà avevano opinioni differenti (Talmud Bavli, Sukkah 11b): Rabbì Eliezer sosteneva, infatti, che si trattasse delle nubi della gloria divina che riparavano Am Israel dal calore soffocante diurno, mentre Rabbì Akiva diceva che le sukkot erano delle vere e proprie capanne costruite ad ogni sosta del viaggio per accamparsi.
Entrambi esprimevano concetti importanti nella loro radicale differenza: per Rabbì Eliezer le nubi erano la prova fisicamente tangibile della miracolosa presenza amorevole e protettiva di Kadosh BaruchHu, che circondava ed avvolgeva il popolo da tutti i lati (un po’ come il lulav che proprio di Sukkot scuotiamo in tutte le direzioni), mentre Rabbì Akiva, particolarmente critico nei confronti della generazione di schiavi usciti da Mitzraim a causa della loro nostalgia per l’Egitto, sottolineava l’importanza di non fare delle proprie solide case di mattoni degli idoli, tenendo a mente la fragilità della vita.
Chissà se Primo Levi pensava a Rabbì Akiva nello scrivere Se questo è un uomo, mi chiedo: “Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case”, riuscite a ricordare il male che avete sofferto, e che altri nel mondo continuano a patire? Per Rabbì Akiva la vera sicurezza nasce non da beni materiali, bensì dalla fede: possono toglierci tutto, ma finché crediamo, possiamo continuare a vivere.
Almeno due volte al giorno, del resto, recitando lo Shemà siamo messi in guardia dalle conseguenze della dimenticanza del Signore e dell’idolatria: “l’ira dell’Eterno si accenderebbe contro di voi, Egli chiuderebbe il cielo e la pioggia mancherebbe, e il suolo non offrirebbe i suoi prodotti e voi dovreste sparire in breve tempo dalla buona terra che l’Eterno vi dà” (Devarim 11:17).
A ben vedere, entrambi i Tannaim affermando concetti opposti giungevano alla medesima conclusione: la protezione vera, che venga dalle nubi rappresentanti la presenza divina, o che venga dalla consapevolezza della precarietà di qualsiasi rifugio materiale, dipende in ultima istanza da D-o. Allora forse il messaggio di Rabbì Akiva non è soltanto un monito volto a ricordare l’incertezza della nostra esistenza, ma un grande spunto di riflessione sulla positività del coraggio di un uomo che non ha esitato a lasciare la sua casa idolatra per partire sì per se stesso, ma senza conoscere la destinazione, come fece Avraham dando vita al popolo ebraico, a sua volta sufficientemente coraggioso da superare la propria paura ed iniziare ad entrare in un mare ancora chiuso per lasciare l’Egitto, andando verso l’ignoto.
Attraverso due diaspore, millenni di persecuzioni, la Shoah e il terrorismo volto a distruggere la vita di Israele oggi, mi piace pensare che Sukkot rappresenti la fiducia che l’insicurezza è una condizione tanto difficile quanto temporanea, e sta a noi cercare di affrontare la precarietà con serena fermezza e fede.

Sara Valentina Di Palma

(13 ottobre 2016)