ELEZIONI E SOCIETA’ “Accettare i risultati non significa rimanere calmi”
“Calmati, caro”, mi ha detto la mia compagna di intervista su BBC Newsnight quando, il giorno dopo le elezioni americane, mi sono lasciato andare e il livello della mia veemenza è arrivato al limite massimo. Non le ho dato ascolto.
Calmarsi è la medicina che i vincitori prescrivono sempre ai perdenti, per timore che il proprio autocompiacimento possa essere disturbato dall’opposizione. Ma inchinarsi al giudizio delle urne non comporta una sospensione del dissenso, in particolare quando, come in questo caso, l’elezione comporta una soppressione spudorata di voti, la politicizzazione dell’FBI e la cyber-interferenza dei russi. Se amare la democrazia significa accettare il risultato del voto, presuppone anche il diritto di fare opposizione. E quando quell’opposizione viene demonizzata come sleale, allora c’è bisogno di fare la voce grossa.
Ci sono, dopo tutto, parecchi motivi per alzare la voce. Stranamente, il pubblico americano che ha premiato il presidente uscente un indice di gradimento del 56 per cento ha anche eletto una persona che si propone di cancellare totalmente la presidenza Obama. Ora che i repubblicani controllano la Casa Bianca e l’intero congresso, il signor Trump avrà mano libera per abrogare l’Affordable Care Act (privando milioni di americani dell’assicurazione), forgiare una Corte Suprema che rovesci la sentenza Roe contro Wade sull’aborto, ripudiare gli accordi di Parigi sui cambiamenti climatici, abbandonare l’accordo sul nucleare iraniano e sbarazzarsi della regolamentazione bancaria Dodd-Frank, progettata per impedire il ripetersi dei comportamenti che hanno portato la Grande recessione.
Si dice che gli istinti “taglia e brucia” del signor Trump saranno moderati da consulenti esperti – non succederà. Ha agito “a Modo Suo” e gli scettici, e coloro che sono stati a guardare, saranno tutti sostituiti da affidabili sicofanti. Sapendo che il suo appeal sugli elettori era tutto basato sul suo atteggiamento da “bullo”, il signor Trump farà si che la sua presidenza sia caratterizzata come “Solo Io Posso Risolvere Il Problema”.
Senza dubbio anche in questo momento i suoi assistenti stanno scrivendo un discorso inaugurale che contiene il solito bromuro sul superamento delle divisioni. Venendo da qualcuno che sa perfettamente come il modo utilizzato per staccarsi dal gruppo sia stato di aizzare la folla con le offese, trasformando Hillary Clinton in una criminale, sarà uno scherzo di cattivo gusto. Gli effetti persistenti della sua retorica maligna e incendiaria non saranno dissipati da uno spettacolino improvvisato di “Kumbaya” che simuli unità e concordia.
Sono effetti che resteranno nel clima politico come una nebbia tossica, non solo perché sa che se dovesse fallire e non mantenere le sue innumerevoli insostenibili promesse, può sempre riattizzare nuovamente i fanatici cercandosi dei capri espiatori, i soliti: il “complotto internazionale” delle banche e dei media e le “élite” cittadine, accusate di parlare dall’alto in basso alla gente normale e di deridere il sogno americano.
Sono stati gli spauracchi del populismo nativista americano per un tempo lungo almeno quanto la vita dell’America. Uno dei grandi paradossi della nazionalità americana è che è stata costruita allo stesso tempo sia sull’accoglimento che sul rifiuto dell’identità degli immigrati. Il patriottismo americano era indifferente alle origini (anche se non, ovviamente, alla razza) in un modo altrove inconcepibile. Ma il successo stesso di un Paese nato sull’immigrazione ha anche generato spasmi di nativismo violento. Nel 1850, gli obiettivi erano i cattolici, irlandesi e italiani; nel 1880, i cinesi; nel 1900, gli ebrei provenienti dall’Europa orientale.
Il populismo del signor Trump è solo l’ultima edizione di questa agitazione scomposta. Diversamente dalla parziale sordità della campagna di Clinton, ha avuto una enorme capacità di ascolto, incanalando la rabbia di coloro che sono stati “lasciati indietro” e il desiderio nostalgico di riavere una patria senza macchia, immaginaria come l’idillico villaggio-verde dei sostenitori britannici della Brexit.
Tali sogni febbrili di purificazione e di restaurazione sono il contagio dei nostri tempi. Due fenomeni indipendenti – una ripresa dalla recessione socialmente ineguale e l’effetto psicologico imprevisto delle migrazioni disperate, in tutto il mondo – vengono collegati, con quest’ultimo portato a spiegazione del primo. La colpa per la contrazione dei posti di lavoro poco qualificati è attribuita ad astuti stranieri e manodopera a basso costo. Il fusibile del risentimento, acceso dalla demagogia, si accende di una fiamma avvelenata.
Le modalità della vittoria del signor Trump persuaderanno altri nativisti e cripto-fascisti che per arrivare meglio al successo nelle loro elezioni sarà utile far dilagare la paranoia. L’internazionalismo e il cosmopolitismo saranno rappresentati come il regno dell’establishment diabolico. I muri di protezione e le torri di guardia dello stato di sicurezza cresceranno nella nazione-cittadella. La libertà sarà sacrificato in nome della sicurezza.
Tutto questo sicuramente succederà davvero, a meno che l’eterogenea cultura cittadina- con tutta la sua creatività disordinata, con le sue maree in perenne movimento di nuovi arrivati e di emigranti – trovi campioni senza complessi. Supporre che un arido menù di proposte politiche fosse la stessa cosa di una difesa a piena voce della modernità è stato l’errore fatale della campagna Clinton.
Quale che sia la cosa che nascerà dalle macerie di questa débâcle del liberalismo non dovrà mai ripetere lo stesso errore. Oggi la dignità ha bisogno di essere sostenuto dalla passione militante e di essere comunicata in luoghi dove può essere ascoltato da persone che non leggono i giornali. Quello che né l’America né il resto del mondo si possono permettere in questo momento è di mantenere la calma e andare avanti come se niente fosse.
Simon Schama, storico
Financial Times, 11 novembre 2016