Ricordi – Il rav dalla battuta pronta

rav Emanuele Weiss LeviEsattamente un anno fa scompariva a Torino rav Emanuele Weiss Levi, cui voglio dedicare alcune righe di memoria personale. Era nato nel 1927 a Biella, città di cui conservava un tenero ricordo e nel cui circondario tornava ogni anno a trascorrere l’estate. Da circa vent’anni viveva alla Casa di Riposo di Torino, dopo che per trentacinque era stato Rabbino Capo di Verona. Giunto a Torino si impegnò immediatamente a collaborare alle Tefillot come chazan volontario diventando, dopo la scomparsa del compianto Comm. Isacco Levi z.l. nel 2000 e così per molti anni, il punto di riferimento nel Bet ha-Knesset tanto nei giorni feriali che di Shabbat. Spesso mi confidava la soddisfazione che provava nel partecipare alla vita ebraica e alle opportunità che la Comunità di Torino gli offriva in tal senso. Si è inoltre adoperato come Rabbino de facto della stessa Casa di Riposo. Indimenticabile e immancabile la Sua figura nella recitazione dei Qiddushim di Shabbat in sala da pranzo, nell’accensione della Chanukkiyah e nella collaborazione ai Sedarim di Pessach. Per molti anni partecipò personalmente ai lutti nella Casa e teneva a recitare lo Tzidduq ha-Din ai funerali degli ospiti. Molti interessi comuni ci animavano. Era un grande appassionato della Chazanut italiana. Si sa molto in questo campo si affida alla tradizione orale e questa attraversa varie fasi in cui una certa melodia subisce variazioni. Rav Weiss Levi, che per un periodo aveva studiato alla Scuola Rabbinica Margulies-Disegni ed era già vissuto a Torino in gioventù, serbava una conoscenza delle melodie tradizionali piemontesi in una fase anteriore a quella praticata dai Chazanim della Comunità più giovani di lui. Con la caparbietà di chi ha la coscienza di essere l’epigono di una grande tradizione si dedicava a ripristinare le antiche melodie locali correggendo toni e semitoni, qualche volta sfidando l’abitudine ormai acquisita dall’intero Qahal. In uno sforzo di preservare tradizioni musicali altrimenti perdute ci ha insegnato numerosi Niggunim della sua amata Verona, alcuni dei quali per merito suo sono entrati stabilmente nel Nussach torinese. È scomparso con lui uno degli ultimi testimoni della tradizione ashkenazita italiana, quale si preservava fino a non molti anni fa in alcune piccole Comunità fra le quali Verona appunto. Era un Ba’al Qorè (lettore del Sefer Torah) di grande precisione. Spesso mi faceva notare sottigliezze di lettura e di queste esattezze andava fiero. La grammatica ebraica era un altro dei suoi punti di forza e con essa la ricerca linguistica comparativa, che lo portava a prediligere il peshàt (senso letterale) nell’interpretazione di espressioni difficili. Di una di queste serbo memoria distinta: per indicare la mescolanza proibita di lana e lino in un tessuto la Torah adopera il controverso termine sha’atnez (Wayqrà 19,19; Devarim 22,11). Egli soleva spiegarlo come un imprestito greco: synthesis. È un’etimologia paradigmatica della sua cultura eclettica e portata proprio alla sintesi. Un’altra funzione da lui svolta con passione era quella del traduttore: del resto la traduzione è a tutti gli effetti una forma di mediazione linguistica e culturale a sua volta. Insieme a Giorgio Battistoni pubblicò la traduzione italiana de “L’Inferno e il Paradiso” di Immanuello Romano (La Giuntina, Firenze, 2000), un poeta medioevale di cui condivideva il nome, la città (Verona) e forse proprio la capacità di trasporre in versi ebraici il miglior portato della cultura italiana. Alla corte di Cangrande della Scala (sec. XIV) Immanuello aveva scritto una sorta di Divina Commedia in ebraico. Con essa intendeva forse celebrare proprio la morte di Dante Alighieri, di cui pare fosse amico. “Insieme al Rabbino Dott. Emanuele Weiss Levi – testimonia Battistoni curatore del volume nella sua prefazione- si è badato innanzi tutto a fornire un testo il più preciso e scorrevole possibile dell’opera di Immanuello Romano: l’opera che malgrado i continui rimandi alla Divina Commedia restava incomprensibilmente assente in lingua italiana”. Io stesso mi sono servito delle capacità di Rav Weiss Levi in qualità di traduttore per la versione italiana del Sefer ha-Yir’ah (“Il Libro del Rispetto”) di R. Yonah da Gerona (Morashà, Milano, 2004), un trattato di etica ebraica quotidiana scritto da uno dei più eminenti talmudisti della Spagna medioevale di cui ho poi personalmente curato il commento; gli chiesi inoltre di tradurre per riviste ebraiche italiane numerosi brevi articoli scritti originariamente in altra lingua. Fra le altre cose desidero ancora ricordare il Rav per la grande passione che portava per la musica classica e la letteratura. Quando in Casa di Riposo si tenevano incontri musicali illustrava agli ospiti i brani che venivano eseguiti di volta in volta con arguzia e dovizia di particolari. Aveva inoltre l’abitudine di citare a memoria lunghi passi di poesia italiana e di altre lingue. Questi trovavano nella sua mente un posto d’onore accanto a interi capitoli del Tanakh. Mi prendeva sovente in giro per le mie citazioni del Midrash, ma la sua conoscenza in materia, ancorché non lo volesse ammettere, era di gran lunga superiore alla mia. Ma ciò che più di ogni altra cosa ci mancherà del Rav è soprattutto la battuta sempre pronta e qualche volta tagliente con cui commentava atteggiamenti e situazioni. Che il Suo ricordo e il Suo affetto siano in benedizione. Tehè nafshò tzerurah bi-tzròr ha-chayim: “Sia la sua anima conservata nello scrigno della vita”.

Alberto Moshe Somekh, rabbino
Pagine Ebraiche, gennaio 2017