Shir shishi – A Roma in Campo de’ Fiori

kaminskiNon sono assolutamente contraria al Giorno della Memoria. Dipende a che cosa si dedicano le scuole, le autorità, i giornalisti, la TV, la radio e così via. In che modo si elaborano i fatti, le testimonianze, gli archivi pieni di documenti sugli orrori dei nazisti e dei fascisti.
Noi, come a Pesach, abbiamo il dovere di chiedere e tramandare, i non ebrei di sollevare dall’oblio alcune questioni: dov’erano nel 1938, nel 1943 e nel 1945 i loro bisnonni italiani, francesi, polacchi?… Un dovere di conoscere e di accettare la propria storia, la nostra storia.
Nell’aprile 1943 il poeta polacco Czesław Miłosz (1911-2004) era a Varsavia sul tram che si fermò accanto al muro del ghetto in fiamme. In quella piazzetta la giostra girava al suon di urla gioiose dei bambini e i venditori ambulanti proponevano caramelline colorate e delicati mazzolini di fiori a regalare alla morosa. Il poeta rimase scioccato e lungo gli anni, durante la sua vita in Francia e in America, questo sentimento divenne un senso di colpa teso a combattere l’Indifferenza. Nel sito dell’Ambasciata polacca si legge:
“Guardando il ghetto in fiamme, Czesław Miłosz, premio Nobel 1980, accostò in questa celebre poesia la solitudine degli Ebrei morenti con quella di Giordano Bruno, morto sul rogo in Campo de’ Fiori nell’anno 1600”: è la scritta che accompagna il poema del premio Nobel polacco sul pannello che fu ufficialmente scoperto il 15 gennaio 2015 sulla celebre piazza della capitale.

A Roma in Campo dei Fiori
ceste di olive e limoni,
spruzzi di vino per terra
e frammenti di fiori.
Rosati frutti di mare
vengono sparsi sui banchi,
bracciate d’uva nera
sulle pesche vellutate.

Proprio qui, su questa piazza
fu arso Giordano Bruno.
Il boia accese la fiamma
fra la marmaglia curiosa.
E non appena spenta la fiamma,
ecco di nuovo piene le taverne.
Ceste di olive e limoni
sulle teste dei venditori.

Mi ricordai di Campo dei Fiori
a Varsavia presso la giostra,
una chiara sera d’aprile,
al suono d’una musica allegra.
Le salve del muro del ghetto
soffocava l’allegra melodia
e le coppie si levavano alte
nel cielo sereno.

Il vento dalle case in fiamme
portava neri aquiloni,
la gente in corsa sulle giostre
acchiappava i fiocchi nell’aria.
Gonfiava le gonne alle ragazze
quel vento dalle case in fiamme,
rideva allegra la folla
nella bella domenica di Varsavia.

C’è chi ne trarrà la morale
che il popolo di Varsavia o Roma
commercia, si diverte, ama
indifferente ai roghi dei martiri.
Altri ne trarrà la morale
sulla fugacità delle cose umane,
sull’oblio che cresce
prima che la fiamma si spenga.

Eppure io allora pensavo
alla solitudine di chi muore.
Al fatto che quando Giordano
salì sul patibolo
non trovò nella lingua umana
neppure un’espressione,
per dire addio all’umanità,
l’umanità che restava.

Rieccoli a tracannare vino,
a vendere bianche asterie,
ceste di olive e limoni
portavano con gaio brusìo.
Ed egli già distava da loro
come fossero secoli,
essi attesero appena
il suo levarsi nel fuoco.

E questi, morenti, soli,
già dimenticati dal mondo,
la loro lingua ci è estranea
come lingua di antico pianeta.
Finché tutto sarà leggenda
e allora dopo molti anni
su un nuovo Campo dei Fiori
un poeta desterà la rivolta.

Varsavia – Pasqua, 1943

(In Poesie, Adelphi, 1983, Traduzione di Pietro Marchesani)

Sarah Kaminski, Università di Torino