Paragoni inopportuni

Perché questo 25 aprile è diverso dagli altri?
“[…] i campi di rifugiati – tanti – sono di concentramento, per la folla di gente che è lasciata lì”. Recentemente si è espresso così papa Bergoglio, interpellato sulla situazione dei rifugiati siriani.
Quante volte abbiamo sentito questo paragone?
Pare che l’analogia coi campi di concentramento, e di sterminio, sia diventato il primo termine di comparazione laddove si cerchino parole per riportare crimini contro i diritti umani. Questa abitudine è diventata incredibilmente radicata nel nostro parlare quotidiano, così che, quasi senza attenzione, ci capita di dire o di sentirci dire: “Un altro Olocausto”.
Basta una singola persona a proporre il confronto per ottenere l’approvazione della maggioranza. E ogni canale mediatico rischia di essere vittima di questa pratica, nessuna eccezione: giornali, social media ed emittenti televisive di ogni paese hanno collezionato una ragguardevole mole di olocausti.
Una svista comune. I parallelismi vengono fatti al primo accenno di somiglianza e non risparmiano nessun evento storico: Trump diventa un odierno Hitler, la tensione fra Stati Uniti e Russia è la nuova Guerra Fredda, mentre gli insediamenti israeliani in Giudea e Samaria, “l’occupazione israeliana”, sono visti quale corrispettivo dell’occupazione tedesca in Italia. L’applicazione di questo modello è un errore di calcolo nell’equazione storica, un drammatico sbaglio nell’analisi.
In questo caso, l’errore sta nell’ampliamento del significato storico del 25 aprile: lo sfilare delle bandiere palestinesi, è estraneo al significato originale dell’evento, è il risultato dell’equiparazione fra due gruppi differenti a livello sia contestuale che temporale. Forse un atto mirato a ‘sensibilizzare’ la popolazione su un argomento attuale, ma non nel luogo e nel contesto appropriati; c’è un tempo e un momento per ogni cosa: il 25 aprile non è adatto per condurre questa guerra.
Sembra che trovare riferimenti in eventi passati ci rassicuri, ci sia strumentale nel trovare una cornice in cui incasellare questo momento di incertezza. La Storia “Magistra Vitae” è il ritornello che ci viene ripetuto sin dall’infanzia, e con le migliori intenzioni, ma tuttavia senza la piena consapevolezza di quello che l’insegnamento ciceroniano può implicare. Facciamo attenzione alle parole dell’oratore romano: la Storia è per lui innanzitutto testis temporum, lux veritatis, vita memoriae (testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria) e solo dopo magistra vitae, nuntia vetustatis (maestra di vita, messaggera dell’antichità). Imparare dagli errori del passato è quindi fondamentale, lo facciamo costantemente anche a livello individuale, cercando esempi e linee guida nel vissuto familiare. Ma i paragoni storici non sono sempre possibili: sono anzi spesso controproducenti. La verità storica non è modificabile, non è lecito piegarla nemmeno in buona fede; così come Maimonide nel suo commentare la Mishnà, scrive che la Torah va considerata in quanto immutabile e inalterabile, così non ci è lecito applicare la storia al presente qualora ci paia conveniente, in quanto si creerà una versione caricaturale della stessa.
In che modo questa interpretazione è ingannevole?
La risposta è semplice. Paragonare l’occupazione tedesca agli insediamenti israeliani non serve. Non serve a comprenderne le ragioni né il contesto, né tantomeno ad evitare la replica atroce di un passato non remoto. Nella pratica, invece, è la creazione di un marchio che ci esonera dallo studio del presente. Una comodità linguistica che ci impigrisce e svuota la memoria del suo senso originale: “È certo che l’esercizio (in questo caso, la frequente rievocazione) mantiene il ricordo fresco e vivo, allo stesso modo come si mantiene efficiente un muscolo che viene spesso esercitato; ma è anche vero che un ricordo troppo spesso evocato, ed espresso in forma di racconto, tende a fissarsi in uno stereotipo, in una forma collaudata dall’esperienza, cristallizzata, perfezionata, adorna, che si installa al posto del ricordo greggio e cresce a sue spese”, per citare Primo Levi.
Questo misuso del passato non giova nemmeno al presente che, bollato da etichette improprie sull’onda del sensazionalismo, diventa incapace di farsi comprendere dai contemporanei. E, al contrario di ciò che si pensa, questa abitudine fa il gioco dei perpetratori, non delle vittime. Chi offende i diritti umani non deve un diventare un fenomeno di massa né un personaggio caricaturale lontano dalle proprie responsabilità: meglio l’oblio dei nomi, a favore del ricordo dei crimini.
Perché questo 25 aprile è diverso dagli altri?
Se siamo contro l’applicazione pratica della Storia, ma vogliamo evitare di cadere nella vuota retorica, usiamo questo 25 aprile per imparare dal passato a essere giusti, a difendere democrazia e libertà.
Come scrive Hannah Arendt, “Comprendere non significa […] spiegare i fenomeni con analogie e affermazioni generali in cui non si avverte più l’urto della realtà e dell’esperienza. Significa piuttosto esaminare e portare coscientemente il fardello che il nostro secolo ci ha posto sulle spalle, non negarne l’esistenza […] significa insomma affrontare spregiudicatamente, attentamente la realtà, qualunque essa sia.”
È questo l’insegnamento più importante: affrontare il presente tale quale, senza sfuggirne, ma celebrando il passato nella sua dignità.
Che la Storia sia dunque maestra di valori e che, per il nostro bene comune, la si applichi in maniera corretta, adulta e responsabile.

Emanuele Levi
Francesca Monticone

(28 aprile 2017)