RACCONTI Signorina, ma il suo golem è donna!
Cynthia Ozick / LE CARTE DELLA SIGNORINA PUTTERMESSER / La Nave di Teseo
Il libro si potrebbe sottotitolare: Le mirabolanti avventure della grigia vita di Ruth Puttermesser. E lei, con la sua esistenza a puntate, la contraddittoria protagonista de Le carte della Signorina Puttermesser. «Un viso da ebrea con un pizzico di diffidenza americana nei confronti dello stesso», una razionalista arguta ed estremamente consapevole del mondo attorno a lei, critica fino a diventare caustica, sobria più di una vittoriana e decisamente pragmatica. Nel contempo, alberga in sé gli alti orizzonti dell’ebraismo originario: è al suo lucido intelletto che assegna il compito di coglierli, se ha un’avidità è per lo studio, il fatto di avere anche un cuore le pare trascurabile, ha altro di cui occuparsi, così, in fondo, rimane un’ingenua. Un ossimoro vivente, insomma, che, dai 34 anni alla soglia dei 70, ogni decennio, riesce a infiammarsi per un’aspirazione, un desiderio puro da aspettative e vederlo puntualmente trasformarsi in realtà dalla quale escono altrettanto puntualmente e grottescamente gabbati lei e i suoi stessi aneliti. Le carte della Signorina Puttermesser è un libro di Cynthia Ozick, uscito negli Usa nel 1997 e divenuto un cult, non solo e non tanto perché piaceva molto a David Foster Wallace, al punto di spingerlo ad annotare le proprie osservazioni sul risguardo del volume, come si fa con un testo che si vuol afferrare a fondo. Piuttosto, perché si tratta del romanzo in cui la scrittrice manifesta maggiormente se stessa. Emerge dalla relazione che la narratrice, dichiaratasi biografa (con diritto d’intervento nella storia), intrattiene col suo personaggio, un gioco di rispecchiamenti per opposizione o complemento fondato su un brioso distacco ironico, una precisa posizione di distanza, più teatrale che reale, senza la quale né il libro né la protagonista esisterebbero. Perché l’integrazione tra l’invadente biografa e Puttermesser costituisce l’alter ego di Cynthia Ozick. Ruth entra in scena e sembra di cogliere il riflesso dell’autrice nascondersi dietro lo specchio, coi suoi principi che non vuol vedere secolarizzati e la sua coesistente impossibilità di non essere del mondo e per il mondo. Il libro costituisce, quindi, anche l’opportunità di entrare nella mente di una grande scrittrice divertendosi. Perché Le carte, segnate dal consueto talento, è uno spassoso inno all’immaginazione, capace di regalare la materializzazione del primo golem femmina accanto a un’acuta caratterizi zione della società americana, di aprirsi a scenari d’ogni sorta, tanto è ricco di temi: dalla discriminazione con i suoi auto-condizionamenti, alla differenza tra desiderio e brama, dal confine tra bene e male, fino alla critica del potere. Il testo non era nato come romanzo ma come sequenza di racconti pubblicati su riviste. Qualcosa di apparentemente imperfetto, certo seriale, ma potente. In fondo, il destino di Puttermesser, che termina ognuno dei 5 episodi con un’amara espressione di rammarico («O New York perduta!» dice da ex sindaco), stava scritto nel nome: significa coltello da burro ossia un coltello che non taglia. Val la pena di citare in inglese l’auto-compianto di chiusura, per via delle assonanze non riproducibili: Oh bitter, bitter, bitter/ buffer/ knife».
Cinzia Fiori, Corriere La Lettura, 30 aprile 2017