Identità – La radice di tutto
Gli ebrei vivono nella penisola italiana da oltre due millenni. Una presenza storica per una minoranza che, tra alterne vicende, ha fortemente inciso nella società. Sul numero di Pagine Ebraiche di aprile sono stati pubblicati al riguardo tre scritti di altissimo valore, con l’autorizzazione del Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah di Ferrara, realizzati per un concorso di selezione di personale all’interno dello stesso Meis. Riproponiamo questa settimana il terzo dei tre scritti. Il disegno è di Giorgio Albertini.
Proviamo a sottoporre la nostra mente ad un gioco d’astrazione. Immaginiamo che gli italiani non considerino il patrimonio culturale ebraico come parte integrante del retaggio nazionale. A cosa dovremmo rinunciare? Cosa dovremmo cancellare dalla nostra storia? Cosa cambierebbe in Italia senza gli ebrei, che in fondo non costituiscono nemmeno l’1% della popolazione totale? Passeggiando nell’area archeologica di Ostia antica, scomparirebbero all’improvviso i resti di quella che si considera la prima sinagoga costruita nella penisola italiana, risalente al secondo secolo avanti l’era volgare. Peccato, non possiamo più usare la terminologia “avanti Cristo”, dato che Gesù, che i cristiani considerano il Messia, era, di fatto, un rabbino, ovvero un maestro, un sapiente ebreo. E i suoi genitori, i suoi nonni… tutti ebrei. Dovremmo staccare dalle pareti dei musei italiani tutti i quadri raffiguranti il Bambinello, la Madonna, Giuseppe, Sant’Anna? E risalire fino al suo più antico discendente, David? Michelangelo avrebbe forse lavorato invano? La Galleria dell’Accademia di Firenze non verrebbe più visitata da milioni di turisti ogni anno, senza la sua meravigliosa statua, ancorché non filologicamente corretta, a dire il vero, giacché la sua nudità è esposta senza alcuna traccia di circoncisione. A proposito, dovremmo forse smettere di festeggiare il primo gennaio, circoncisione di Cristo? Non è possibile. Ripartiamo da capo. Iniziamo con i documenti. In epoca medievale, dovremmo rinunciare “solo” a qualche “condotta”, i contratti con cui veniva concessa agli ebrei la possibilità di stanziarsi in una determinata città, aprendo banchi di prestito ad interesse alle condizioni stabilite dai cristiani. Probabilmente, verrebbe a mancare un tassello fondamentale nella comprensione della nascita del moderno sistema bancario, non capiremmo l’astio di Bernardino da Feltre e Girolamo Savonarola nei confronti di fantomatici “usurai succhiatori del sangue dei cristiani”, né tantomeno la lena con cui i frati predicatori si adoperarono ad aprire (fallimentari) “monti di pietà” a tassi d’interesse zero, ma insomma, si può sopravvivere. Il problema è che sparirebbero dagli archivi italiani centinaia e centinaia di documenti notarili scritti riutilizzando codici pergamenacei ebraici, i rotoli della Torah, e i risvolti di copertina di Talmud scampati ai roghi di epoca moderna. Eh già, perché con la Controriforma la situazione per gli ebrei in Italia diviene più complessa e nasce in questo periodo il “ghetto”, un’idea destinata a durare a lungo. Ecco, a questa idea potremmo anche rinunciare volentieri, ma sparirebbero con lei interi quartieri, soprattutto a Venezia, dove questa parola è nata (e dove quest’anno si celebra il suo cinquecentesimo anniversario), e a Roma, dove il concetto ha ricevuto veste ufficiale da papa Paolo IV. E nella città della laguna, e all’ombra del teatro Marcello, non potremmo più gustare le specialità ebraiche, come i celeberrimi “carciofi alla giudia”. Far chiudere il ristorante “Da Gigetto”: questo, per noi italiani, sarebbe un problema di non poco conto. Cui andrebbero ad aggiungersi la scomparsa di decine di cimiteri ebraici, che regalano alle nostre città angoli insospettati di pace e di silenzio, nascosti dal verde o da spesse mura, come a Ferrara, dove riposa Giorgio Bassani, autore di libri meravigliosi come “Il giardino dei Finzi contini” e “Occhiali d’oro”. Ed insieme a lui dovremmo rinunciare alle opere di Primo Levi, un chimico prestato alla letteratura, anche suo malgrado, ma con ottimi risultati, a giudicare dal numero di lettori che ancora oggi si interrogano sulle problematiche affrontate in “Se questo è un uomo” e “La tregua”. Perché in effetti molti ebrei sono rimasti in Italia nonostante le leggi antisemitiche del settembre 1938, nonostante le discriminazioni e le persecuzioni successive, nonostante quelle stesse leggi siano rimaste (parzialmente) in vigore per decenni dopo la seconda guerra mondiale. Certo, se non considerassimo il patrimonio culturale ebraico, inteso in senso lato, come parte integrante del retaggio nazionale, sparirebbero dal nostro panorama luoghi vergognosi come la Risiera di San Sabba, a Trieste, ma dovremmo rinunciare ad una più profonda comprensione dell’animo umano, che è fatto anche di impulsi violenti e irrazionali. E spesso utilizza pregiudizi privi di fondamento. Come l’idea che gli ebrei sacrificassero un bambino cristiano per celebrare la “pasqua” – una parola, tra l’altro, a cui dovremmo rinunciare, insieme a “sabato”, giacché derivano entrambe dall’ebraico, “pesach” e “shabbat”. E questa stessa lingua nel Rinascimento è stata anche alla base di moltissimi studi, non solo biblici e teologici, ma anche filosofici e cabbalistici, da parte di studiosi cristiani, come Marsilio Ficino e Pico della Mirandola. L’ebraico ha dato vita persino a dialetti italiani, come il bagitto, parlato un tempo a Livorno, una delle poche oasi di convivenza in epoca moderna, diremmo oggi, “interetnica” e “interreligiosa”, una città che forse, senza i cosiddetti “marrani” (ebrei provenienti dalla Spagna che avevano continuato a celebrare segretamente i riti ebraici dopo l’espulsione del 1492), cui dette rifugio, a partire dal 1593, non sarebbe mai nata. Non resta che cercare rifugio nella poesia o nella musica, ma anche in questi campi, ahimè, gli apporti ebraici sono numerosi e difficilmente eliminabili: persino Giacomo Leopardi, la nostra gloria nazionale, dichiarò di essersi ispirato all’opera di Salomone Fiorentino, il primo poeta ebraico italiano. “Non c’è più trippa per gatti”, dunque, come esclamò il primo sindaco ebreo di Roma agli inizi del Novecento? Beh, sì, visto che dovremmo rinunciare anche alla mole antonelliana, inizialmente progettata per essere la sinagoga di Torino, perfetto esempio di luogo di culto ebraico nel periodo dell’emancipazione, e che attualmente ospita il Museo del cinema. C’è poco da ridere, persino una famosa comica italiana cela le sue origini ebraiche – il suo vero cognome è Norsa – sotto un nome d’arte. E allora dovremmo cancellare anche tutti gli italiani che discendono da ebrei che, nel corso dei secoli, si sono convertiti al cristianesimo? Ahi! La prossima volta, per favore, facciamo un gioco meno doloroso: la mente vi ringrazia, e il cuore si rinfranca.
Samuela Marconcini
Samuela Marconcini: laurea in Storia medievale presso l’Università di Firenze, dottorato di ricerca in Discipline storiche alla Scuola Normale Superiore di Pisa e diploma presso la Scuola di Archivistica, Paleografia e Diplomatica dell’Archivio di Stato di Firenze. Ha curato diverse pubblicazioni di argomento storico e lavora come guida turistica.