Società – Tutela del consumatore, le ricette del Talmud
“Lavorare facendo uso della saggezza antica” lo spunto suggerito dal rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni in riferimento alle polemiche e al dibattito scaturitosi dopo l’approvazione alla Camera della nuova proposta di legge sulla legittima difesa. Perché, anche se è facile dimenticarlo, alcune delle questioni divenute cruciali per le società del terzo millennio già tenevano banco secoli e secoli fa. E i criteri dei nostri antenati hanno spesso qualcosa da insegnarci. Così per esempio la rubrica che il settimanale americano Tablet dedica al Daf Yomì, la pratica di studiare una pagina al giorno del Talmud, testo principe della sapienza ebraica, ha di recente trattato una delle più pressanti questioni nello sviluppo del diritto degli ultimi decenni, la tutela del consumatore.
“Cosa succede quando un compratore riceve una merce difettosa? Esiste un diritto implicito alla garanzia, che fa sì che se il venditore sia obbligato a prendere indietro la merce e restituire il denaro?” si chiede il giornalista Adam Kirsch, che spiega poi come nel corso della discussione talmudica, il tema fondamentale diventi cosa ci sia alla base di una transazione commerciale, e in particolare l’obiettivo dell’acquirente. “Si potrebbe pensare che il venditore stia semplicemente consegnando una certa parte di proprietà al compratore e che la sua responsabilità finisca non appena la transazione è completata. Questa è la prospettiva implicita nell’antico detto latino tuttora in uso caveat emptor che prevede come se l’articolo acquistato non adempie ai suoi desideri, il problema sia solo suo. Ma i saggi vedevano la cosa in modo diverso, tenendo in considerazione le motivazioni interiori del compratore nel momento in cui ha deciso di effettuare l’acquisto. Lo ha fatto perché desidera realizzare un certo desiderio o progetto e il venditore gli sta garantendo di aiutarlo nel suo obiettivo. Se le merci non sono adeguate alla premessa, il venditore non ha mantenuto un implicito impegno e deve occuparsi di rimediare”.
Cosa accade per esempio nel caso dell’acquisto una certa partita di semi se poi non germogliano? La distinzione secondo i saggi andrà fatta tra chi ha comprato per seminare e chi per mangiarli. Nel primo caso il venditore sarà tenuto a rimborsarlo, nel secondo no, perché non avrebbe potuto anticipare quello specifico uso. Ma se le sementi in questione sono di una pianta che non può essere consumata, come dei fiori, allora non ci sarà dubbio che esse dovevano essere adatte alla semina. Naturalmente si pone a questo punto il problema di come verificare le autentiche intenzioni dell’acquirente.
“Secondo uno schema caratteristico, questa domanda iniziale si trasforma ben presto, attraverso una discussione tra le autorità talmudiche, in un dibattito su un principio più ampio e fondamentale della Legge ebraica: quello che i rabbini chiamano ‘seguire la maggioranza’. Possono i giudici supporre che in ogni dato caso, i motivi di una specifica parte in causa sono gli stessi di quelli che avrebbe avuto la maggior parte della gente nella medesima situazione?” fa notare ancora Kirsch. I Saggi del Talmud vanno in entrambe le direzioni. Ma talvolta, come conclude il giornalista del Tablet, il punto non è trovare una risposta univoca, ma seguire i diversi ragionamenti. Perché ci sono domande le cui risposte sono molto più che un semplice bianco o nero, il cui valore sta nelle sfumature. Millecinquecento anno fa così come oggi.
Rossella Tercatin