Il ritorno di chi
non se ne è mai andato
Se si vuole cogliere il senso, a ben vedere neanche troppo sofisticato, delle incestuose contaminazioni tra quello che resta di una certa sinistra radicale, in questo caso autodefinitasi «anti-imperialista», e le vecchie e nuove ramificazioni di una destra dai tratti fascistoidi, comunque intolleranti, alla costante ricerca di un nuovo respiro populistico, che trovano entrambe nell’antisemitismo il vero punto di coagulo, la traiettoria del “comico” ed “umorista” Dieudonné M’bala M’bala, in arte più semplicemente Dieudonné («Dieudo»), è emblematica. Siamo nei paraggi della Francia del neolepenismo, per intenderci. Lui lo negherebbe anche sotto tortura, ma il brodo di coltura rimanda ad alcuni aspetti di quell’universo di pulsioni e rabbiosità. Tra l’altro, il personaggio, dopo le trascorse polemiche, di cui era stato protagonista, nonché le condanne subite, ha recentemente annunciato che si presenterà alle prossime elezioni legislative, sia pure in funzione supplente rispetto ad un altro candidato. Lo farà nel collegio della prima circoscrizione dell’Essonne, dipartimento francese della regione dell’Île-de-France, dove già fu eletto nel 2002 il socialista Manuel Valls, poi primo ministro francese tra il 2014 e il 2016. Anche per questo è interessante spendere ancora qualche parole su di lui e su come calchi, da provetto mestierante, la scena pubblica. Provenendo dal magmatico arcipelago dell’antirazzismo francese, dal quale ha preso le mosse prima come autore e attore, poi come politico sui generis, Dieudonné – infatti – ha catalizzato su di sé molti aspetti della transizione dalla nobile lotta contro il rifiuto della diversità (laddove quest’ultima continua invece ad essere intesa come uno stigma sociale) all’enfatica valorizzazione della “differenza” in quanto tratto sul quale costruire una piattaforma ideologica di rigetto del repubblicanesimo francese e, più in generale, europeo. Certo, va riconosciuto che se lui ne è la farsesca e attoriale raffigurazione, altri, in realtà, sono i veri aedi culturali di questo profondo mutamento ideologico, in un generale smottamento di pensieri dove alla critica dell’esistente si sostituisce l’esaltazione di una presunta «identità» assolutista e insindacabile. Il loro fondamento è giocato esclusivamente sul vittimismo, insieme alla ripetizione ossessiva del paradigma del risarcimento: “siamo stati defraudati dalla storia, quindi esistiamo perché abbiamo il diritto ad esercitare una rivalsa perenne”. Ma rimane il fatto che questo triste figuro, il polemista che calca ancora le scene, e con successo di riscontro, del mondo dello spettacolo francese, abbia dalla sua un pubblico (pagante) che gli intellettuali rosso-bruni spesso possono solo invidiargli. Naturalmente, nella meccanica del dileggio che utilizza per accreditarsi come coscienza critica, fa ricorso al perno del «complotto sionista» in quanto elemento intorno al quale ruotare tutto e tutti. Il “tutto” della falsa comprensione del presente, ridotta ad uno slogan (atteggiamento che galvanizza molti degli ascoltatori, proprio in quanto semplificazione della complessità delle cose), e quei “tutti” che diventano astanti, figuranti, maschere e protagonisti fittizi – in una parola, pubblico adorante – della enfatica ricostruzione e spiegazione del tempo corrente che Dieudonné dà in pasto alle folle. La «quenelle», il gesto volgare e ingiurioso che mima al medesimo tempo il saluto nazista e la dimensione di un gigantesco membro virile, è un corredo di questo dispositivo retorico. Il suo obiettivo sarebbe quello di rivendicare una presunta libertà di espressione e di giudizio, altrimenti lesa, se non completamente impedita, dalle autorità e dal “potere”, così come dal giudizio di senso comune, quest’ultimo condizionato dalle une e dall’altro. Dieudonné si presenta come colui che si è incaricato di “liberare”, con una dirompente carica che si vorrebbe anticonformista, quello che molti penserebbero ma non osano dire, in obbligato omaggio al politicamente corretto. Autorità, poteri ma anche pensieri correnti costituirebbero quindi il prodotto di una sorta di «nuovo ordine mondiale», quello che alimenta gli incubi dei complottisti. Non a caso Dieudonné, prima ancora che dichiararsi contro qualcuno, finge candidamente, ovvero con falsa ma calcolata ingenuità, di essere “a favore” di qualcosa: l’autonomia di manifestazione di un giudizio che, esprimendosi contro le convenzioni prevalenti, riesce così a dissimulare la sua intima natura di pregiudizio totale. Non è infrequente il sentire dire, tra il numeroso pubblico che ancora assiste alle sue performance, che ciò che va mettendo in scena costituirebbe la “pura verità”, omessa dai più per mero calcolo d’interessi e per autocensura. Dieudonné come la voce dell’altrimenti inconfessabile, in altre parole. In realtà, le cose stanno ben diversamente: siamo infatti semmai nei paraggi del negazionismo, come sistema non tanto di falsificazione del dato storico quanto di costruzione di una narrazione antitetica a quella che inevitabilmente deriva dal ricorso ai dati di fatto. Strategico, in questo genere di messaggi, è quindi il rimando ripetuto, se non maniacale, al «sionismo» come ad una sorta di giogo imposto collettivamente alle coscienze, l’ideologia diabolica e pervasiva attraverso la quale il «mondialismo» dei grandi capitali finanziari, dei «poteri forti», eserciterebbe la sua signoria assoluta. Tutto ciò da sempre fa cornice al Dieudonné “politico”. Come ai tempi dei tragici eventi che avevano colpito la redazione di «Charlie Hebdo», nel gennaio del 2015. Dopo la corale risposta della società francese all’attentato islamista, nel quale erano periti dodici membri della redazione e due poliziotti, Dieudonné aveva scritto su Facebook di sentirsi al pari di un «Charlie Coulibaly», unendo sarcasticamente il nome del giornale satirico a quello di Amedy Coulibaly. Quest’ultimo era il terrorista che il giorno successivo al massacro parigino si era reso artefice del sanguinario assalto antisemita al supermercato «Hypercacher» di Porte de Vincennes, ad est di Parigi, conclusosi con l’intervento delle forze dell’ordine, tuttavia non prima che tre persone venissero assassinate. Giocando volutamente su più piani, per creare e rinnovare, come da sua abitudine, una calcolata confusione e attesa tra i suoi ascoltatori e spettatori, prima di sferrare il tiro mancino (quello che nella costruzione logica delle sue comunicazioni servirebbe a “fare chiarezza”, superando la suspense iniziale per giungere poi ad indicare quale sia la “giusta interpretazione”), nel suo post sul social network Dieudonné avevadefinito la grande marcia parigina contro il terrorismo, tenuta in quei giorni, come «leggendaria», facendo ricorso ad un linguaggio tanto immaginifico quanto ingannevole. Aveva infatti chiosato che, pur trattandosi di «un istante magico paragonabile al big-bang», la sua disposizione d’animo era quella per cui: «sappiate che stasera, per quanto mi riguarda, io mi sento Charlie Coulibaly». Si trattava di una voluta provocazione, una specie di pasticcio linguistico tra significati opposti, dove i due estremi, le vittime e i carnefici, venivano messi insieme, ossia volutamente mischiati. Poiché è da questa confusione dei ruoli che Dieudonné ha costruito le proprie fortune: una finta immedesimazione in un evento tragico che diventa da subito annullamento delle effettive responsabilità per ribaltamento dei fattori. Ad essere per davvero “colpevoli” di qualcosa, lascia intendere il “comico” nei suoi spettacoli, sono e rimangono coloro che vengono considerati dall’opinione pubblica come le autentiche vittime. I francesi colonialisti, gli europei schiavisti, i sionisti imperialisti, gli ebrei prevaricatori, porterebbero su di sé l’onere di essere i protagonisti di una lunga catena di nequizie, a causa delle quali si sarebbe scatenata la giusta collera degli offesi e degli esclusi. In fondo, secondo questo criterio, i terroristi sarebbero solo vittime delle vittime. Quella di Dieudonné è una tragica pantomima comunicativa e scenica che era già stata iniziata da autorevoli critici e quindi da lui poi ripresa, come moneta grezza, da gettare contro i propri “nemici”, nel capovolgimento dei rapporti e nel tentativo di distruggere ogni legittimità alle repliche del caso. Il rimando al conflitto israelo-palestinese, in questi casi, si fa irresistibile perché permette di capovolgere tutti gli schemi, ricostruendoli a propria immagine e somiglianza. Dieudonné lo ha sempre saputo. Il suo antisemitismo usa questa logica per legittimarsi, ossia per dare sostanza e raccogliere consensi tra un pubblico che ride perché intimamente impaurito del presente, in quanto incapace di pensare al futuro; alla ricerca – pertanto – di spiegazioni elementari, usando categorie interpretative e identificazioni emotive volutamente e deliberatamente impossibilitate del rendere conto della complessità dei meccanismi in atto. La logica binaria amico/nemico, raccolta dentro l’urlo della tribù, torna allora ad essere l’unica istanza alla quale fare riferimento, raccogliendo con ciò il compiacimento di una collettività ridotta indistintamente a “gente”, a sua volta trasformatasi in pubblico plaudente di una raffigurazione nel medesimo tempo triste e feroce. Il fatto che vi siano non pochi figli di un’emancipazione perduta che scambino, nell’età della globalizzazione, questo equivoco deliberato per ciò che invece non è né mai sarà, ossia un’autentica speranza, la dice lunga sulla commistione e sulla confusione della quale andiamo ragionando. Poiché il linguaggio dell’attore e politico francese non è quello della liberazione bensì della paura e della rabbia furiosa e impotente. Un’inchiesta pendeva peraltro già sul suo capo dal settembre del 2014, quando aveva pesantemente ironizzato sullo sgozzamento e sulla decapitazione del giornalista americano James Foley per mano dei jihadisti siro-iracheni del Daesh. Il resto ne è derivato e conseguito. Dieudonné rimane a tutt’oggi un re del kitsch, del pari agli stessi fondamentalisti assassini. E il kitsch, che non è una categoria estetica che rinvia al “cattivo gusto” ma è un modo di rapportarsi all’esistente, come alla vita, riducendo l’uno e l’altra ad un oggetto, è un potente fermento dei fondamentalismi e dei neofascismi. Dieudonné, come è di sua prassi, davanti ad ogni critica riveste i panni della vittima, che gli sono consustanziali. Il doppio registro che contempla provocazione e vittimismo è, infatti, alla radice del suo modo di proporsi al pubblico francese. Per sedurlo con il lamento del coniglio mannaro. In tali vesti, quindi, già nel 2015 aveva redatto e reso pubblica una lettera aperta all’allora ministro dell’Interno Bernard Cazeneuve, in cui imputava allo Stato francese la responsabilità di trattarlo «come il nemico pubblico numero uno», quando lui, invece, avrebbe cercato «solo di far ridere», proprio come «Charlie Hebdo». Rincarando la dose, affermava: «Quando io mi esprimo, non si cerca di capirmi, non mi si vuole ascoltare. Si cerca un pretesto per vietarmi. Mi si considera come Coulibaly mentre non sono diverso da Charlie», sottolineando quindi di sentirsi perseguitato a prescindere. E giù, a seguire, l’elenco dei soprusi patiti: perquisizioni immotivate, mancata protezione della polizia in presenza delle altrui provocazioni, controlli fiscali bizantini e irragionevoli, divieti oppure ostacoli al normale esercizio della sua professione in pubblico, una sequela di inchieste e procedure giudiziarie, linciaggi mediatici, isolamento e quant’altro. Un paio d’anni sono trascorsi da quei fatti. Mentre Dieudonné è stato condannato, peraltro a pene miti, tanto è vero che oggi si candidata all’elezione per il Parlamento francese, le cose non sono per nulla cambiate. Il terrorismo islamista è saldamente ancorato, nelle sue diverse forme, alla cronaca di ogni giorno. In questo quadro rimane un elemento di fondo, ossia che tra gli umori che un Dieudonné raccoglie, dando ad essi una qualche forma compiuta, e le motivazioni criminali dei terroristi, c’è più di un legame occasionale. Non è solamente il segno della compromissione di un attore-politico, capace di fiutare dove il vento tira per mettersi sulla lunghezza d’onda del risentimento, ma anche il bisogno, da parti di molti tra coloro che vanno ad ascoltarlo e ad applaudirlo a scena aperta, di riconoscersi in una imbelle critica del potere che, fingendosi sarcasmo e vestendosi dell’irriverenza, è in realtà non la premessa di un progetto di cambiamento ma il suggello della subalternità e dell’impotenza. La forza del pregiudizio è, per l’appunto, anche questa, laddove simula la liberazione quando in realtà celebra l’asservimento delle coscienze. Per non pensare e dire di peggio.
Claudio Vercelli
(4 giugno 2017)