Le parole contro il terrore

rassegnaLa guerra ai terroristi? Si fa con le parole giuste. È quanto scrive Paolo Mieli, in un ampio intervento sul Corriere della sera. Minacciare ritorsioni impraticabili è rischioso, sostiene lo storico e giornalista, “meglio raffinare l’analisi di un problema che durerà e non si supera dicendo che la vita continua come prima”.
Tra gli studiosi ad essere citati anche il francese Alain Finkielkraut e il dibattito in corso sul cosiddetto “ricatto dell’islamofobia”, formulazione espressa proprio dall’illustre intellettuale d’Oltralpe.
“Intelligence e zero pietà per i complici”. Il sindaco Nir Barkat intervistato dal Messaggero, racconta il modello Gerusalemme nella risposta e prevenzione al terrorismo islamico. Afferma il primo cittadino della capitale di Israele: “La sicurezza è il frutto di una combinazione di elementi. A Gerusalemme, su 900mila residenti gli arabi sono 300mila, oltre un terzo. In maggioranza sono persone perbene, che vogliono una vita pacifica, un’istruzione valida per i figli, buoni servizi sanitari. Ma tra di loro ci sono pure i cattivi che fanno ricorso alla violenza”. Aggiunge quindi Barkat: “Gerusalemme ha la migliore polizia e i migliori servizi del mondo. Intercettiamo i cattivi prima che facciano le cose malvagie. Lavoriamo insieme alla maggioranza dei buoni, contro i cattivi. Abbiamo una difesa civile alla quale contribuiamo tutti. La nostra filosofia è semplice: esser buoni coi buoni e molto cattivi coi cattivi”.
Sul dorso romano del Corriere, la presidente della Comunità ebraica Ruth Dureghello sottolinea: “Gli attentati come quello di Londra o una tragedia da panico incontrollato come quella di Torino ci fanno capire che serve, ora più che mai, una vera e propria educazione per poter gestire il terrore e controllare la sovreccitazione che ne deriva”. Riflette ancora Dureghello: “In Paesi come Israele questa cultura esiste già. Viene insegnato già da bambini ad aver occhi ovunque, a guardarsi intorno e a guardarsi gli uni con gli altri al fine di evitare pericoli”.

Israele pensava di usare la bomba atomica durante la guerra dei Sei giorni, nel giugno del 1967. È quanto scrive il New York Times, in un articolo citato oggi in breve da alcuni quotidiani italiani (tra cui Repubblica). “Sarebbe stata gettata sulla penisola del Sinai come monito all’Egitto e alle altre forze arabe nemiche dello Stato ebraico” riporta Alberto Flores D’Arcais.
Scrive a proposito dell’anniversario Fabio Nicolucci sul Mattino: “Se gli inizi della guerra sono stati il problema della sinistra europea, gli effetti strategici di quel prodigio tattico sull’anima di Israele sono il problema della destra ora al governo a Gerusalemme. Le celebrazioni del cinquantenario, fatte in un insediamento, e soprattutto la scia negli ultimi anni di leggi e atti restrittivi del meraviglioso pluralismo sociale e politico del sionismo realizzato da parte della destra al governo indicano che tale problema ancora non è vissuto come tale”.
Molto critico Marco Travaglio, direttore del Fatto Quotidiano: “Alla lunga, l’occupazione di Cisgiordania e Gaza, da storica vittoria militare, si tramuterà nella peggiore sconfitta storica. Il sogno della Grande Israele biblica attizzerà gli appetiti religiosi e coloniali del gruppi ebraici più estremi, stravolgendo uno Stato finora laico e socialista. L’ennesima disfatta militare convincerà i palestinesi (e non solo loro) che non resti altra soluzione che il terrorismo: tantopiù che si ritroveranno contro non soltanto Israele, ma anche i finti alleati arabi, dalla Giordania al Libano all’Egitto, autori dei peggiori massacri di palestinesi della storia”.

Intervistata dal Messaggero, la star del grande schermo Natalie Portman racconta il suo esordio in regia con “Sognare è vivere”, film tratto dal romanzo Una storia di amore di tenebra di Amos Oz. “Ho amato molto il libro – spiega l’attrice – è una storia incredibile. La prima cosa che mi ha colpita è stato il rapporto tra il ragazzo e sua madre e ho trovato molto toccante come lei plasmi questo personaggio destinato a diventare un artista, questo in primo luogo, e poi credo che la lingua ebraica contenga così tanti misteri, e sia così potente e bella per raccontare una storia del genere”.

Stasera protagonista al Conservatorio di Milano, il violinista Shlomo Mintz racconta al Corriere l’incontro con gli strumenti musicali che più lo hanno emozionato: “Due violini anonimi, costruiti negli anni venti del Novecento. Sono due dei 28 strumenti che Amon Weinstein, un liutaio di Tel Aviv, ha recuperato tra quelli che si suonavano ad Auschwitz”.

Anche il presidente della Fondazione Museo della Shoah di Roma Mario Venezia tra i vincitori del Premio Simpatia 2017. A riportarlo è il dorso locale di Repubblica.

Adam Smulevich twitter @asmulevichmoked

(5 giugno 2017)