Perplessità estive
Se non fossi stata in spiaggia con amici, avendo dimenticato a casa il libro che sto leggendo (serie di improperi per riuscire sempre e comunque a scordare qualcosa, e ringraziamenti perché il qualcosa se non altro è ‘soltanto’ un libro e non il cibo in polvere per lattanti, perché non di sola cultura ci si nutre), non avrei forse mai preso in mano Storie della buonanotte per bambine ribelli. 100 vite di donne straordinarie di Francesca Cavallo ed Elena Favilli (Mondadori 2017). Con spirito un po’ snob diffido dei testi presentati all’uscita come grandi successi, i toni magniloquenti mi irritano, provo fastidio di fronte alle operazioni editoriali (in questo caso il lancio del libro per la festa della donna l’8 marzo, e anche sulla suddetta festa potremmo argomentare). Ma di fronte al sole, al mare e alla fame di lettura, ho ceduto.
E sono rimasta perplessa. Perché rivolgersi solo alle bambine, innanzitutto, e non a tutti i bambini? Forse anzi soprattutto ai ragazzi, con l’idea che possano apprendere qualcosa di diverso sulle donne? Mi sembra infatti ci siano molte più bambine ribelli e donne che hanno aspirazioni e consapevolezza di bambini e uomini capaci di apprezzarle per quello che sono e per le loro ambizioni e capacità. Ma poi, le motivazioni per cui queste donne sono ritratte ne fanno icone di genere e permettono di identificarsi con il loro femminismo (lo so, è un concetto desueto)? Perché storie della buonanotte, dato che nulla le caratterizza come tali, e anzi sarebbe più efficace, se l’idea è offrire dei modelli di anticonformismo ed autonomia critica, non consegnare queste figure di cento donne (quanto è orribile quel 100 numerico) al solo mondo onirico? Perché cento, e non trecentosessantacinque, una per ogni giorno dell’anno?
Ma queste erano solo le prime perplessità iniziali di fronte ad un prodotto accattivante che vuole ammaliare la lettrice – o forse piuttosto la madre della lettrice, perché il libro è scritto con un linguaggio bamboleggiante poco adatto a dei bambini) con bellissime immagini, offrendo biografie poco biografiche, che non molto dicono delle donne in oggetto, fornendone ritratti semplificati e spesso banalizzandone le figure e trascurandone i dati biografici. Non solo: vero è che qualsiasi scelta è di per sé arbitraria e discrezionale, e che le donne degne di menzione per la loro importanza (che altro è dalla ribellione, e davvero queste donne erano o sono ribelli? E la ribellione è un valore in sé?) sono più di cento o di trecentocinquanta, ma alcune delle biografie raccolte lasciano a desiderare – oggettivamente a desiderare.
Perché infatti inserire figure discutibili come Aung San Suu Kyi, premio nobel per la pace e resistente birmana a lungo in lotta per la democrazia e oggi al potere, la cui politica nei confronti della minoranza musulmana dei Rohingya ha evocato nell’ultimo anno l’ombra del genocidio o quantomeno della cosiddetta pulizia etnica (asettica ed eufemistica espressione)? E se anche, forse, al momento della stesura del libro la politica birmana appariva ancora senza macchia, lo stesso non può dirsi certamente per Coco Chanel, dichiaratamente antisemita, complice nelle requisizioni di beni ebraici ed attivamente impegnata con il governo di occupazione nazista in Francia.
Di molte, tra le donne presentate, poteva essere detto altro, magari ragionando in termini diversi dall’autoaffermazione ma gettando luce sul loro impegno (per quante tra loro lo hanno effettivamente avuto, e non per tutte è così) per cambiare una società caratterizzata da gravi sperequazioni sociali, sessismo o razzismo.
Alcune di queste, chiamiamole generosamente, biografie, ammiccano alla cronaca, come il caso transgender di Coy Mathis, ma su questo non ci aveva detto già tanto, molto di più, un libro come Extraterrestre alla pari di Bianca Pitzorno, nel lontano 1979 (La Sorgente)?
Certo, sarebbe stato bello leggere di Anne Frank, lei sì una bambina ribelle alle regole di comportamento tra adolescenti di sesso diverso imposte dagli adulti, sognatrice di un mondo libero, sicura che se fosse sopravvissuta sarebbe diventata una scrittrice, impegnata nonostante tutto a raccontare quanto viveva e quanto sognava? O di Golda Meir, una delle prime donne alla guida di un piccolo Paese al centro di grandi e tragici eventi, sin da adolescente impegnata in favore dei più svantaggiati? O di Hannah Senesh, paracadutista partita volontaria per fornire aiuto ai partigiani europei e sostenere le comunità ebraiche stritolate dal nazismo, catturata torturata ed assassinata da un plotone di esecuzione che volle guardare negli occhi?
Infine, amara notazione sul linguaggio, anch’esso artificialmente ammiccante ai falsi problemi del post femminismo odierno: siamo sicuri che la parità di genere passi attraverso la definizione di sindaca o architetta? Allora, ho commentato leggendo ad alta voce al mio compagno, da domani dovresti chiedere di essere chiamato anche tu commercialisto. E nel frattempo pensavo amaramente che, da ovunque si trovi, Umberto Eco se la rida: chissà se, quando pubblicò la sua “Bustina di Minerva” del 17 giugno 2004, prevedeva che la lotta femminista contro la history per via di quel prefisso così maschile, in nome della nuova herstory, si sarebbe nutrita di tante cellule cerebrali nostrane?
Sara Valentina Di Palma
(22 giugno 2017)