STORIA Tripoli 1967, le memorie raccolte dai ragazzi
Dieci racconti sull’esodo forzato degli ebrei di Libia del ’67, dieci ragazzi chiamati a leggerli e interpretarli. Nel cinquantesimo anniversario dall’arrivo a Roma da Tripoli, la sfida lanciata dal Centro Ebraico Il Pitigliani ha raccolto un chiaro successo. Un racconto a più voci, ispirato dall’ormai tradizionale “Memorie di famiglia” che ogni gennaio chiama a raccolta centinaia di persone sul tema della Memoria, che è stato brillantemente condotto da Karen Hannuna e Nando Tagliacozzo con intervento di saluto della presidente della Comunità ebraica romana Ruth Dureghello e accompagnamento musicale di Evelina Meghnagi, Emanuele Levi Mortera, Arnaldo Vacca e del Pitigliani Vocal Project (coro dei bambini). Ha sottolineato Giordana Menasci, curatrice dell’evento assieme ad Anna Orvieto. “I giovani tramandano le storie dei nonni: questa è la formula che da sei anni promuoviamo e attuiamo con Memorie di famiglia per il Giorno della Memoria; decine di ragazzi ogni anno salgono sul nostro palco per leggere la storia dei propri familiari, diventando protagonisti ed ereditando il ruolo di testimone”. Una formula già sperimentata in più edizioni e adattata, in questa specifica circostanza, per portare all’attenzione di tanti vicende e complessità dell’ebraismo libico. A mezzo secolo dall’esilio, una memoria quanto mai viva. Le parole degli adulti, tramandate ai ragazzi. Un patto ferreo tra generazioni, per coltivare un ricordo che non può che essere parte inalienabile della propria identità presente. Eccone qualche assaggio.
IL MATRIMONIO
Molte famiglie, soprattutto quelle tradizionaliste, tenevano molto a festeggiare la sposa una settimana prima delle nozze con la cerimonia della Henna. Questa è una tradizione che gli ebrei hanno assorbito dagli arabi. Si invitavano i parenti e gli amici in casa della futura sposa dove la madre, aiutata da parenti, aveva preparato per tutti gli ospiti la cena. Per quell’occasione alla futura sposa, aiutata dalle amiche, venivano fatti indossare il tradizionale baraccano, un telo di seta rossa intessuto di fili d’oro, dei sandali rossi, dei bracciali e collane d’oro. Alla futura suocera toccava consegnare alla sposa la cesta dono, foderata di rosso, che conteneva prodotti di bellezza, oltre alla henna, alle due sterline d’oro e ai confetti rossi necessari per il rito. Tutto veniva ricoperto di nastri rossi perché avesse la più allegra presentazione. Quando la futura sposa era vestita le veniva calata una parte del baraccano sul viso in segno di pudore e, accompagnata dalle amiche, due delle quali reggevano una candela sempre rossa, faceva finalmente il suo ingresso in mezzo agli ospiti. Al suono dei tamburi, dei canti e degli urli che le donne hanno appreso dagli arabi, la futura sposa veniva fatta sedere. A quel punto, il promesso sposo le si avvicinava per scoprirle il viso e la suocera e le amiche, specialmente quelle che dovevano trovare marito, le passavano la henna sui capelli mentre lo sposo le metteva le due sterline d’oro sul palmo delle mani che lei teneva chiuse per qualche minuto, auspicio di ricchezza e prosperità. Liliana Debache (letto da Sarah)
NONNO MANI
Nonno Mani, il padre di mia mamma, vestiva prevalentemente all’araba. In alcune occasioni aveva un abito grigio, come si diceva “all’italiana”. Io mi ricordo solo quel vestito, non so se ne avesse altri “occidentali”, ma forse sì. Presumo dello stesso colore. A differenza di nonna Mezzala, sua moglie, lui non parlava l’italiano. Lo capiva, ma non lo usava. Aveva nove figli o meglio, come affermava nonna con naturalezza, “dodici figli ma tre erano morti subito”. Dicevano che fosse analfabeta, ma non era vero. Non solo, come era ovvio, leggeva i testi delle preghiere (un sapere dato per scontato, all’epoca, per un ebreo di Tripoli, non una reale competenza linguistica) ma sul lavoro prendeva appunti scrivendo con caratteri ebraici quello che sentiva in arabo. I nonni abitavano vicini a casa mia. Il sabato, verso i dieci anni, andavo a prendere nonno per entrare con lui al tempio e sedermi nel posto a lui destinato, che veniva lasciato libero anche se la sinagoga era piena. In realtà, il tempio era il passaggio obbligato per potere gustare, dopo la funzione il rientro e la benedizione a casa, il brodo dei fagioli che era stato in ebollizione sul fornello per tutta la notte tra il venerdì sera e il sabato mattina. Mi piaceva a tal punto che, più grande, avrei chiesto e ottenuto di andare da solo alla prima funzione e poter fare colazione con quel brodo, dopo la benedizione di nonno prima che lui stesso andasse al tempio. Saul Meghnagi (letto da Benjamin)
TRIPOLI 1967
2 giugno 1967: le avvisaglie del pogrom iniziano a farsi sentire. Gli ulema inneggiano alla guerra santa nelle moschee. Le radio ripetono a tutto volume: l’entità sionista è senza speranza e i suoi abitanti saranno sterminati e gettati nel mare. In queste settimane di angoscia, più di ogni altra cosa mi terrorizza la prospettiva di una violenza generalizzata contro le donne e gli anziani. Temo per mia sorella, per mia madre e per mio padre, per i miei fratelli. Le immagini terrifiche di quel che potrebbe accadere sono attenuate dall’angoscia prodotta dall’immagine degli eserciti arabi che accerchiano Israele. Nel buio e nel silenzio della notte mi chiedo cosa accadrebbe, se a colpire per primi fossero stati gli eserciti arabi. Tel Aviv, dista pochi chilometri dal fronte orientale, il confine a Gerusalemme è costituito da un reticolato e noi intrappolati e isolati dal resto del mondo. Dormo armato di coltello, pensando a come vendere cara la pelle mia e dei miei. Alla notizia della guerra, la folla esulta per le strade. La radio annuncia che Tel Aviv è in fiamme. Ma noi ne siamo certi: sono notizie false. Le urla sono solo l’assaggio di quella violenza indifferenziata. David Meghnagi (letto da Daniel)
Italia Ebraica, giugno 2017