Cerve e gazzelle
Il viaggio verso il campeggio estivo è lungo, i libri troppo pochi e poi il libro del vicino è sempre più verde e viene disputato alacremente, dunque come affrontare le prossime quattro ore di viaggio? Si corre il Palio, la nostra contrada ha valide speranze, e questo potrebbe essere un buon argomento di conversazione, sebbene non si debba prendere la cosa troppo sul serio per non incorrere in avodà zarà (Sanhedrin 3:3: tra le persone escluse dal giudicare e dal testimoniare vi sono coloro che organizzano corse di piccioni e come tali sono considerati alla stregua degli scommettitori; Avodà Zarà 1:7 che proibisce la vendita di orsi e leoni e qualunque cosa possa recare danno al pubblico, viene interpretata come proibizione a partecipare a spettacoli pagani, e le corse di cavalli fanno parte di quella paganizzazione reintrodotta dal filo romano Erode il Grande come già perniciosamente in precedenza con l’ellenismo di Antioco Epifane (Fritz Graf, Roman Festivals in the Greek East: From the Early Empire to the Middle Byzantine Era, Cambridge University Press 2015).
E a proposito della nostra contrada, che porta il fiero motto di Fiede et risana al par l’arma c’ho in fronte a ricordare il presunto potere curativo del corno dell’unicorno, proprio alcuni giorni fa abbiamo ammirato nel museo pistoiese del Palazzo dei Vescovi, in uno dei nostri giri turistici alla scoperta della città, il cinquecentesco Arazzo Millefiori – opera immensa e grandiosa in cui, su un fondo blu, si dipanano decine di specie floreali e diverse specie animali, tra cui un unicorno che potrebbe essere sia un’allegoria araldica, alludendo alle nozze di una coppia blasonata, sia simbolo cristologico, il quale a sua volta deriverebbe dalla commistione iconografica di un cervo bianco, indice di purezza, con una croce d’oro tra le corna.
Proprio di questi giorni è la notizia della scomparsa, dalla Riserva naturale Pian di Spagna e Lago di Mezzola (tra Sondrio e Como), di una cerva bianca, animale rarissimo che qui era nato due o tre anni fa, caro alle tradizioni mitologiche di diverse civiltà e culture – dai romani che con il generale Sertorio attribuirono potere divinatorio ad un cervo bianco cresciuto in cattività, agli shintoisti per i quali il cervo bianco è un messaggero divino – e in quale rione pistoiese potevamo finire ad abitare, se non in quello del Cervo Bianco?
“La voce dell’Eterno fa partorire le cerve” (Tehillim29:9), cantiamo in Tempio per onorare lo Shabbat nel riportare il Sefer all’Aron, in riconoscimento della gloria divina e menzionando il nome del Signore diciotto volte, da cui derivano le diciotto benedizioni dell’Amidà. La voce di Kadosh BaruchHu è dunque foriera di vita e allo stesso tempo fa piegare le gambe impaurendo, sino a farla partorire, la fiera cerva che normalmente sta dritta in piedi. Il canto è tanto importante perché onora D-o, come fece Moshè una volta all’asciutto nell’uscita dall’Egitto e come farà David nell’esprimere amore per il Signore attraverso le lodi o tehillim, espressione dell’anelito verso D-o “come la cerva aial anela ai ruscelli d’acqua” (Tehillim 42:2).
Nell’invocare la fine del galut proprio David si rivolge al maestro del coro, su aielet haSahar, letteralmente “cerva dell’alba” (Tehillim 22), un’espressione oscura in cui Aielet è nome poetico per cerva ed indica forse il tono su cui cantare la melodia o lo strumento musicale di accompagnamento; Shahar potrebbe forse rimandare metaforicamente anche all’oscurità dell’esilio. Aielet compare anche in Mishlè 5:19 dove il figlio di David, Salomone, si riferisce all’amore legittimo per la moglie compagna di vita, “cerva amabile e graziella leggiadra” da contrapporsi alla seduzione pericolosa ed ingannatrice della donna straniera, un’allegoria per l’amore della Torà contro i rischi dei culti idolatri.
Si torna a parlare della cerva in uno dei più bei canti innalzati dall’uomo in onore di Kadosh BarukHu, il cantico di Salomone, invocando le figlie di Gerusalemme, “per le cerve e le gazzelle dei campi” (Shir HaShirim 2:7), di non svegliare l’amato che riposa: non far abbandonare l’amore per HaShem; la stessa invocazione torna reiterata in 3:5 e 8:4, mentre poco dopo è scritto che “Il mio amato assomiglia ad una cerva o una gazzella” (Shir HaShirim 2:8), a significare che il Signore arriva sempre prontamente. Più oltre la donna incita l’amato ad essere “simile alla cerva o alla gazzella per i monti distanti” (Shir HaShirim 2:17, con variante in 8:11 dove si parla di “monti di aromi”), come a chiedere di agire in fretta per far arrivare l’era messianica con riferimento al monte Moriyà dove verrà ricostruito il Bet haMikdash.
“I tuoi seni sono come due cerve gemelle di una gazzella (Shir HaShirim 4:5 e poi 7:4) sposta il fulcro dall’amore terreno alla dimensione spirituale della grandezza di Moshé ed Aharon guardiani di Israel, come a dire che potere politico e spirituale sono uniti e concordi nel difendere Israel. Ma a mantenere tensione tra diverse interpretazioni, ci ricorda Ceronetti, i due vocaboli associati di zvaot e aialot rimandano sì a cerve e gazzelle, animali leggiadri il cui speculare maschile appare però molto più minaccioso (montoni, caproni) ad ammonire sul pericolo del demoniaco sempre in agguato (Guido Ceronetti, Il Cantico dei Cantici, Adelphi 1992, pp. 83-84).
La cerva aialà compare anche in Bereshit 49:21 nel testamento e profezia di Yakov/Israel in punto di morte, quando dice che “Simile ad una cerva veloce è Naftalì, che pronuncia discorsi eloquenti”, alludendo forse al rapido attacco di Barak a Sisrà e al canto che una volta vittorioso intonò con Dvorà (Shoftim 5:1). Perché, come rammenta il profeta Havakuk di cui nulla sappiamo, “Il Signore è il D-o che mi dà forza, che trasforma le mie gambe in quelle delle cerbiatte” (3:19).
Speriamo, insomma, che la cerva bianca torni presto.
Sara Valentina Di Palma
(6 luglio 2017)