Il mestiere di storico
A cosa serve la storia, si chiedeva Marc Bloch non a caso prima ancora che terminasse il Secondo conflitto mondiale – una crisi in cui si riproponeva la questione se fosse giusto interrogare il passato, e se lo si facesse in modo adeguato, per comprendere i meccanismi dell’agire umano nelle società dai tempi remoti a quelli contemporanei (Marc Bloch, Apologia della storia o mestiere di storico, Einaudi 1969, ed. or. 1949).
Poiché lo storico non può osservare direttamente i fatti che studia, nella consapevolezza di non poter conoscere tutto il passato ma solo quanto ne è stato tramandato egli deve appoggiarsi alle testimonianze, ovvero tutto ciò che (persone, ma anche documenti materiali) racconta quanto ha esperito direttamente. I testimoni possono quindi essere volontari, ed offrirsi di raccontare, ma anche involontari (documenti e, dietro di essi, chi li ha prodotti), e vanno interrogati cercando di evitare sia lo scetticismo sia la credulità di principio, uno opposto dell’altro ma entrambi dannosi – dubitare di tutte le fonti versus credere a tutte le fonti – mediante l’uso del metodo comparativo tra documenti diversi, per vagliarne la veridicità.
Bloch ci sta dicendo in sostanza che bisogna conoscere le origini di un testo, e non basta classificarlo come vero o falso, ma se è falso capire perché – c’è la frode, ovvero il documento falsificato; il rimaneggiamento, vale a dire l’invenzione di particolari in un racconto di massima veritiero; così come ci sono l’inganno preordinato e doloso, intenzionale, e la falsificazione derivata dalle circostanze come la propagazione casuale di un errore, magari a partire da una diceria non controllata che si diffonde come veritiera grazie ad una società interessata, per diverse ragioni, a favorirne la diffusione o quantomeno a non interrogarsi sulla sua veridicità e quindi a verificarla.
Nel delicato intreccio e stratificarsi delle memorie (difficile poter parlare di memoria al singolare, come fosse un’entità monolitica contrapposta alla storia documentaria), già grazie a quanto vissuto nel corso del Primo conflitto mondiale, Bloch ci aveva messo in guardia: il buon testimone in senso assoluto non esiste, esiste semmai una testimonianza che può essere attendibile in alcune parti piuttosto che in altre (Riflessioni d’uno storico sulle false notizie della guerra, apparso nel 1921 su “Revue de synthèse historique” e pubblicato in italiano in Storici e storia, Einaudi 1997, in cui Bloch interpreta la Grande guerra ed ogni conflitto in generale come il laboratorio naturale collettivo adatto alla propagazione di leggende, sulla base del detto “Kommt der Krieg ins Land, Dann gibt’s Lügen wie Sand”: arriva la guerra nel paese e le bugie si diffondono come la sabbia).
Anche l’errore è dunque importante: per lo storico esso dovrebbe essere analizzato, piuttosto che liquidato, al fine di trovarne le cause, perché sia che si tratti di osservazioni inesatte, sia di testimonianze imperfette o lacunose, perché l’errore si propaghi serve una società con un terreno di coltura favorevole – e la guerra ne è l’esempio migliore non solo per la falsa notizia forgiata dalla stampa al fine di influenzare l’opinione pubblica, ma soprattutto per il coagularsi di paure e desideri – così, rammenta Bloch, alla fine dell’agosto 1914 si diffonde in Gran Bretagna ed in Francia la voce che i russi arrivino in aiuto degli alleati occidentali (per il desiderio di veder rafforzato il fronte), oppure la psicosi collettiva tedesca porta i combattenti a vedere ovunque in Belgio franchi tiratori (dal terrore dei soldati tedeschi in un luogo estraneo ed ostile).
“Ogni memoria è uno sforzo” (p. 213), è la ricostruzione del passato partendo dal presente, ed il lavoro dello storico procede sempre in due direzioni, con uno sguardo rivolto all’indietro ed uno sul contesto in cui opera, cercando di ricostruire il passato ed al contempo interrogandosi sulle modalità di conservazione e di trasmissione del ricordo nel singolo e nella società. Riflessioni queste di grandissima attualità, nell’ambito di un uso pubblico della storia spesso viziato da passioni e contingenze politiche – idee avanzate da Bloch quasi un secolo or sono, nel 1925, e ben sviluppate poi da un altro studioso in Sei lezioni sulla storia (Einaudi 1970, ed or. 1961), in cui Edward Carr ci mette in guardia sul rischio di parzialità da un lato e di relativismo dall’altro: i fatti sono filtrati dalla mente di chi li registra e la storia è interpretazione (così come lo storico è prodotto della società in cui scrive), ma al contempo lo storico ha il dovere di rispettare i fatti e di utilizzare tutti i fatti a disposizione, sia quelli pro sia quelli contro l’interpretazione proposta.
A Carr dobbiamo anche un altro concetto fondamentale: oggetto della ricerca non può mai essere un solo individuo, ed il singolo va inserito in un contesto più ampio e meno semplicistico, ricostruendo il contesto economico, sociale, politico in cui ha operato.
Questo mi sembra il giusto contesto preliminare in cui collocare il caso Palatucci – capo dell’ufficio stranieri della Questura di Fiume, proclamato Giusto tra le Nazioni nel 1990 perché ritenuto artefice del salvataggio di circa cinquemila ebrei perseguitati, sul cui operato ormai da diversi anni sono stati sollevati dubbi, tra i professionisti ben prima della polemica mediatica, scoppiata nel giugno del 2013 a seguito di un articolo apparso sul New York Times subito ripreso dalla stampa nostrana rapidamente infiammatasi tra detrattori ed agiografi, mentre gli addetti ai lavori esortavano alla prudenza e l’Ucei incaricava una commissione ad hoc di analizzare il caso e tutti i documenti che potessero essere rintracciati al fine di far luce sulla vicenda.
Ben ne scrive di recente Antonio Brusa nel suo articolo Palatucci. Ricerca storica e storia alternative (in “Historia ludens”, 16 luglio 2017) il quale riprende Un articolo del 1955 su 5.000 ebrei croati “salvatisi per mezzo del ‘canale’ di Fiume diretto da Giovanni Palatucci”. Una verifica storiografica e documentaria, l’ultimo articolo uscito per “Italia Contemporanea” (283, 2017, pp. 147-181) a firma dello storico Michele Sarfatti – uno dei massimi conoscitori della Shoah italiana, cui dobbiamo conoscenze e concetti storiografici, e che ha ben presente il patrimonio documentario a disposizione nonché gli ambiti in cui la ricerca può fare ancora molto.
Brusa ricorda come la storia del salvataggio di massa per mano dell’ultimo questore di Fiume non sia suffragata ad oggi da prove documentarie e sembri piuttosto frutto di suggestioni storiografiche alternative, createsi in un contesto di ricerca agiografica di eroi soprattutto in ambito cattolico ed alimentata da pubblicazioni, dibattiti online e programmi televisivi, celebrazioni commemorative e produzioni cinematografiche, che concernono meccanismi di costruzioni mitologiche dell’Italia contemporanea in un contesto generale di revisione dell’operato di Pio XII volto a suffragare, ancora, il mito del ‘bravo italiano’ già denunciato da David Bidussa nel lontano 1994 (il Saggiatore), piuttosto che la ricerca basata sullo scavo documentario.
Manca, ricorda Sarfatti in Gli italiani che furono Giusti verso gli ebrei, all’epoca della Shoah (in “Documenti e commenti”, n. 3, 10 febbraio 2017), un quadro complessivo del salvataggio degli ebrei braccati. Bisognerebbe, piuttosto che semplificare tra salvatori e vittime dimenticando i carnefici (Simon Levis Sullam, I carnefici italiani. Scene dal genocidio degli ebrei, 1943-1945, Feltrinelli, 2014), ricostruire la rete di assistenza costituita anche da alcuni ebrei stessi (esclusi a priori da Yad Vashem dal riconoscimento di Giusti, e forse anche per questo non abbastanza indagati, alimentando peraltro così lo stereotipo della passività ebraica di fronte alla persecuzione), nonché da diversi italiani antifascisti.
Un uso critico filologico approfondito delle fonti permetterebbe di restituire la complessità di una vicenda che va oltre l’eroismo di singoli individui e vede la partecipazione di diversi attori, come sul caso locale fiorentino invita ancora una volta alla necessità di un serio lavoro comparativo Michele Sarfatti in un articolo pubblicato lo scorso gennaio (Gino Bartali e la fabbricazione di carte di identità per gli ebrei nascosti a Firenze, in “Documenti e commenti”, n. 2, 17 gennaio 2017). Il resto è commento.
Sara Valentina Di Palma
(27 giugno 2017)