L’opinione degli altri

Anna Segre“Tutti i viandanti batterono verso di te le loro palme, fischiarono e scrollarono il capo sulla figlia di Gerusalemme (dicendo): «È questa la città detta perfezione di bellezza, delizia di tutta la terra!»” (2, 15).
“I diletti figli di Sion, valutati come l’oro fino, sono ora considerati come vasi di creta, lavoro di mani d’un vasaio” (4,2).
“Né i re della terra, né tutti gli abitanti del mondo avrebbero mai creduto che il nemico, l’avversario, sarebbe entrato per le porte di Gerusalemme” (4,12).
Non avevo mai notato quanto il libro di Ekhah (Lamentazioni) si preoccupi dell’opinione degli altri. Non solo dei nemici diretti, a cui, certo, è dedicato molto spazio (e, anche se si riconosce che sono strumenti della punizione divina, non si parla di loro in termini troppo gentili e riguardosi), ma anche degli altri popoli, quelli che si potrebbero definire neutrali. Si dà per scontato che la caduta di Gerusalemme sia un evento che interessa al mondo intero, e il fatto che il resto del mondo veda la nostra rovina pare essere di per sé una disgrazia.
In fin dei conti potrebbe anche non essere così: perché dovremmo preoccuparci del parere di re e popoli non necessariamente giusti? Del resto si sa che esiste una tendenza universale a dare la colpa alle vittime; lo aveva notato anche Dante, quando nel Paradiso fa profetizzare il proprio esilio dal trisavolo Cacciaguida: “La colpa seguirà la parte offensa in grido, come suol”. E anche Dante considera l’opinione negativa nei confronti delle vittime come una delle disgrazie portate dalla condizione di esule. Anche le nostre generazioni lo sanno bene: la memoria della Shoah non porta affatto simpatia, come molti credono, anzi, continuamente ci sentiamo chiedere quali siano le ragioni per cui i nazisti ci odiavano così tanto, e ci troviamo spesso nella sgradevole posizione di doverci giustificare perché qualcuno ha tentato di sterminarci. A volte mi viene addirittura il sospetto che se il mondo si dimenticasse della Shoah saremmo paradossalmente noi ebrei a trarne il maggior vantaggio (e mi domando se questa considerazione non potrebbe essere uno strumento utile contro i negazionisti: non è vero che il ricordo della Shoah ci fa comodo, anzi, tutt’altro).
Forse è proprio per questa tendenza universale a incolpare le vittime che il libro di Ekhah considera una disgrazia il fatto che il resto del mondo osservi le nostre disgrazie? Può darsi, però è anche vero che fin dal primo capitolo l’attenzione altrui viene esplicitamente sollecitata: “Il Signore è giusto perché mi ribellai alla Sua parola; ascoltate, dunque, popoli tutti, osservate il mio dolore” (1, 18). Dunque, per noi forse è un male che gli altri conoscano le nostre disgrazie, ma è un male necessario perché le nostre disgrazie sono educative per tutti. Nell’ebraismo, mi pare, non c’è niente di simile all’idea di “molti nemici, molto onore”, non c’è un compiacimento nella cattiva opinione altrui. Per quanto dolorosa, l’opinione altrui è importante e la buona opinione altrui è da ricercare, come si leggerà domani nella parashà di Vaetchannan (Devarim 4,6): “Li osserverete e li attuerete scrupolosamente perché ciò dimostrerà la vostra sapienza e la vostra saggezza agli occhi dei popoli che esaminando tutti questi statuti diranno: “Questa grande nazione è certamente un popolo saggio e intelligente”.

Anna Segre

(4 agosto 2017)