Noi siamo qui
Rabbi Shimon Ben Gamliel diceva: “Non c’erano festività più grandi in Israele del 15 di Av e Yom Kippur. A Tu Be Av le figlie di Gerusalemme uscivano e danzavano nei vigneti per incontrare il futuro sposo”. Ancora oggi giovani coppie scelgono di convolare a nozze in questa giornata magica e di buon auspicio. È il 15 di Av giungiamo a Gerusalemme. Siamo una cinquantina, tutti membri del Kibbuz Sasa, per una delle nostre gite per unire e consolidare i legami. Ci dividiamo in due gruppi e, persino il caldo esageratamente snervante, non riesce a limitare il piacere di girare nella città delle energie e dei contrasti.
Il primo giorno è una sorta di festival culinario nei vicoletti di Mahanè Yehuda, uno dei mercati più affascinanti del mondo: assaggiamo falafel, foglie di vite ripiene di ogni bene, succhi di ginger, frutti di bosco e mela verde e dopo ogni sorso già ti pare di stare meglio: di avere la pelle più liscia, il sangue che scorre più veloce e l’anima più bella.
Il secondo giorno siamo nella città vecchia. Varchiamo le mura entrando dalla Porta di Damasco. Il gruppo si ferma per alcuni minuti, che mi sembrano interminabili, per sentire la spiegazione della guida. Mi guardo intorno, la strada palpita di turisti, di passanti carichi di sporte, di donne velate e donne che indossano abiti bianchi di festa. Poliziotti, soldati e soldatesse vigilano attenti. Negli ultimi mesi ci sono stati molti attacchi terroristici: è stata accoltellata una ragazza e altri due sono stati uccisi poco lontano da qui. Quando, D. Ci scampi, arriva un terrorista succede tutto all’improvviso, punta direttamente con un coltello sul collo per essere sicuro di uccidere. Non riesco a concentrarmi. Guardo i volti dei passanti… sento il cuore che mi batte più forte. Eppure, sul volto della gente di Sasa e della guida, non c’è ombra di turbamento. È la differenza tra i sabres, gli israeliani nati qui, a casa da sempre, e gli ebrei della golah che ancora sentono il ringhio dei cani dei soldati tedeschi, che sanno che da un momento all’altro qualcuno cercherà di cacciarli dalle loro case o di incolparli di un falso misfatto. Ci addentriamo nelle vie anguste del quartiere musulmano, il profumo dei pani di sesamo appena sfornati e il sapore di fichi appena colti che vendono in ogni angolo della Via Dolorosa, inebriano i sensi. Sulle magliette appese all’entrata dei negozi ci sono scritte tipo “Free Palestine” o immagini di Arafat che sorride e fa V in segno di vittoria. Mi rivolgo a Yehuda e Dudu che camminano vicino a me e chiedo loro con voce disperata: “Ma vedete cosa vendono? Rinunceranno mai a credere che un giorno tutta Israele sarà loro?” Sorridono entrambi e mi dicono: “No, ma non importa. Possono crederlo! Ognuno a diritto di credere ciò che vuole”. Guardo il loro sorriso divertito e tranquillo e penso: “Ma si, che il mondo dedichi piazze e parchi a chi crede, noi siamo qui, nella terra che abbiamo coltivato, curato e amato da sempre…..e chi ci sposta più?!”.
Angelica Edna Calò Livne
(9 agosto 2017)