Il gusto del rancido
«Ho sbagliato e sono dispiaciuto. L’errore non è stato avere preparato quella torta, ma averla esposta. Era grande, nel frigo del laboratorio non ci stava, e così, prima di incartarla, l’ho messa in vetrina. Dei clienti hanno protestato. […] Me l’ha ordinata una brigata di cucina di un ristorante del paese. Volevano fare uno scherzo per il compleanno del cuoco, uno che quando lavora “sembra Hitler”. Una goliardata». Che esporre una torta con il volto di Hitler sia un atto giustificato come «goliardata» dovrebbe farci riflettere ben di più che non il caso dell’aperto richiamo ad un’appartenenza politico-ideologica censurabile. Poiché il vero discrimine, in qualche modo rilevato anche dalla proposta di legge Fiano sulla punibilità dell’apologia manifesta del fascismo – che viaggia in Parlamento verso una probabile approvazione definitiva (invero obtorto collo) – non sta tra la rivendicazione o il rifiuto di un’ideologia mortifera ma tra piena consapevolezza del suo contenuto (come tale accetto o rigettato) e sua banalizzazione ignorante e, al medesimo tempo, nauseante. Se il riferimento alla «goliardia» (qui intesa come ironia spiazzante ma anche infantiloide; quanto faccia sorride un Hitler in vetrina, tuttavia, lo si è ben visto) è sincero, forse allora c’è qualcosa di più di cui preoccuparsi di quanto già non si faccia con nipoti e epigoni dichiarati dei regimi liberticidi novecenteschi. Poiché il ritorno della tragedia può avvenire anche in forma di farsa disgustosa, come una torta guarnita di un’immagine raccapricciante, tale soprattutto per ciò che evoca. Una forma sempre e comunque connotata dall’ostentazione e dall’esibizione dell’osceno. Ed ostenta ed esibisce, molto spesso, chi finge di non avere piena cognizione del significato di certi simboli, semmai compiacendosi e crogiolandosi della provocazione, nell’implicita consapevolezza che la loro manifestazione pubblica costituisce comunque la ripetizione in effigie delle offese che arrecarono alle loro vittime. Ovvero, dei loro tragici richiami e della delirante e cieca violenza di cui erano (e rimangono) depositari. L’ironia rancida di quella torta – quindi – non è una attenuante, semmai costituisce un’aggravante. Una grande parte dei dispositivi totalitari, infatti, è costituita non da scienza e coscienza, da cognizione, pensiero ed etica, quindi da maturata conoscenza e consapevole scelta bensì dalla sospensione dell’una e dell’altra facoltà. Il totalitarismo reale ha, tra le sue caratteristiche, quella di imporre la neutralizzazione della competenza di giudizio, sostituendola con una sorta di licenza all’auto-indulgenza perenne, quella che deriva dalla logica ferina del branco e del gregge. Branco che si rinforza quando ha qualcuno (o qualcosa) contro cui scagliarsi e gregge che accoglie affettuosamente il colpevole, prosciogliendolo da ogni responsabilità personale. L’apologeta aderisce a questi paradigmi. È immerso in uno stato di sospensione del pensiero critico – qualora sia questa una funzione che abbia almeno imparato ad esercitare – e in una totale assenza di senso della responsabilità sociale e morale. La banalizzazione delle tragedie del passato, e del rischio nel presente, si nutre quindi dell’uno e dell’altro atteggiamento: è come se davanti ad un morto, a fianco dei congiunti che ne piangono dolorosamente il trapasso, questi bellamente esclamasse: “che magnifica giornata!”, per poi, una volta redarguito, controbattere: “che male c’è nell’indifferenza?”. Uno dei più sinceri ed autentici motti fascisti, non a caso, è l’imperativo dannunziano del «me ne frego!». Che non vuole dire: “io non so”; poiché semmai se ne «frega» chi sa ma non vuole assumersi nessuna responsabilità, chi conosce e riconosce ma non nutre nessun pensiero, nessun moto interiore. Magari buttando tutto in debosciata caciara, in falsa ironia, in pesante sarcasmo. Se si guarnisce una torta con la riproduzione di un’immagine di Hitler si sa bene cosa quell’individuo abbia rappresentato per una parte della società. Altrimenti, si sarebbero utilizzate altre decorazioni. C’è un filo-fascismo diffuso, largamente presente sottotraccia, che si alimenta non solo di una nostalgia asfissiante (tutte le ideologie hanno una componente di tal genere, evocando un mitico passato in cui le cose e le persone sarebbero state “migliori” e al quale bisognerebbe tornare, imponendolo come regime di vita a tutti) e di una esclusiva adesione motivata al registro politico di quel passato, bensì della compiacenza di poterci “scherzare sopra”. La sdrammatizzazione, in questi casi, viene presentata come una forma di liberazione (“cosa temi di quei trascorsi, se ne possiamo addirittura ridere?”) quando invece si trasforma in una nuova legittimazione (“se le cose fanno ridere evidentemente non sono state così brutte come le si è dipente”). Chi difende l’ostentazione dei simboli del fascismo (ed il fascismo si è sempre giovato del ricorso a simbolismi ossessivi, ripetuti, sostituitivi della vita stessa: morire per una bandiera, morire per un simulacro, morire per nulla poiché l’esistenza umana in sé vale niente), rivendicandone la liceità del gesto, ha moventi e ragioni molto diverse da chi invece si interroga su come si possano gestire le tracce del passato senza per questo cancellarle né esserne soggiogati. La linea di divisione può apparire sottile ma i campi che questa separa sono incommensurabilmente diversi. Anzi, semmai opposti. Poiché, mentre nel primo caso si invoca la libertà come licenza, per poi apologizzarne chi storicamente l’ha distrutta, nel secondo ci domanda come e quanto la libertà si alimenti anche e soprattutto del confronto con quelli che rimangono segni e vestigia dei regimi liberticidi. Si è detto che certi fenomeni collettivi non possono essere efficacemente contrastati e censurati da una legge. Si è ripetuto, come già era avvenuto nel passato per altre questioni similari, che il rischio è piuttosto quello di alimentare la fascinazione per ciò che è proibito. Si è richiamato il fatto che non si debbano creare nuovi “falsi martiri”, ovvero coloro che colpiti dagli effetti della norma invocherebbero per sé non solo l’innocenza delle proprie intenzioni ma anche l’attenzione mediatica. Come non essere d’accordo con queste preoccupazioni? Il punto è però anche un altro. Dobbiamo infatti sempre domandarci se il dispositivo di una legge vada nel senso che essa stessa auspica già dalle sue premesse oppure rischi di alimentare, nei fatti concreti, un’eterogenesi dei risultati, ossia un esito esattamente opposto a quello cercato. Riformuliamo il quesito con altre parole, per meglio intenderci: all’enfatizzazione dell’inaccettabile, risponde meglio il suo divieto preventivo e, qualora vi sia poi una violazione del medesimo, la sua repressione giudiziaria, oppure necessita qualcosa di diverso, a partire da un’azione educativa? Due sono le risposte possibili: la prima è che una scelta non esclude l’altra. Semmai una cosa interviene laddove l’altra manifesta di non riuscire più a raggiungere un qualche accettabile obiettivo. Segnatamente, la funzione della pena, in un paese a cultura giuridica avanzata, sarebbe anche quella rieducativa. Tant’è. Comunque, leggervi una contrapposizione, almeno in questo caso, non ha pieno fondamento. A patto che educazione e sanzione offrano una coerenza di fondo. La seconda risposta rimanda al fatto che sempre più spesso si gabella per libertà di espressione quello che è vissuto come “diritto all’insulto”. Se si continuerà su questa china, assai poco se non nulla rimarrà dello spazio di un reciproco ascolto, sommersi come saremo dal ricorso all’invettiva universale, dall’offesa permanente, dall’istigazione alla denigrazione. La legge Fiano, a tale proposito, interviene su due versanti: il primo è il riaffermare di nuovo che sussiste un limite tra ciò che è lecito e quanto, invece, tale non è mai stato, né deve diventarlo in futuro. Fosse anche solo per colpevole noncuranza. La norma, infatti, di per sé non istituisce nulla; semmai ribadisce quel che dovrebbe essere un sentire condiviso, a fronte – invece – di un preoccupante slittamento in atto nel senso comune: il fascismo non è un legittimo pensiero, semmai è un reato. Di riflesso, ogni forma di sua manifestazione apologetica. Nulla di meno, niente di più. Il secondo riscontro che accompagna il legislatore è la sopravvenuta consapevolezza che la politica abbia anche una funzione di pedagogia civile. Un tempo neanche troppo lontano sarebbe stata un’ovvietà. Oggi non lo è più. Poiché è mutata la funzione sociale della politica non meno che il modo di disporsi dei cittadini verso di essa. E sono cambiate le relazioni sociali, a partire dal web. La politica, licenziando una legge di tale genere, non dice ai cittadini cosa debbano essere; ricorda loro cosa non possono essere in quanto il fascismo è anticostituzionale. Anche in questo caso nulla di meno, niente di più. Il rimando all’abbattimento delle statue di Cristoforo Colombo non c’entra nulla. È strumentale accostare la discussione sull’opportunità delle norme che adeguano ai tempi i criteri di perseguibilità del reato di fascismo (sì, il reato!) all’atteggiamento iconoclasta di coloro che, rimuovendo qualcosa del passato, vorrebbe in tale modo cancellarlo. Una buona politica non può basarsi sulla rimozione. Semmai si fonda sul senso condiviso del limite, concorrendo a rigeneralo costantemente. Poiché la legge non “riscrive” la storia. Semmai la conferma per quello che è stata. Non si occupa del passato, si impegna nel presente.
Claudio Vercelli