MEMORIA Gli ebrei sfuggiti all’orrore nazista
Liliana Picciotto / Salvarsi / Einaudi
Dico subito che è stato stimolante leggere il libro-documento di Liliana Picciotto, che ha un titolo accarezzato dal vento della speranza: Salvarsi (Einaudi). Stimolante perché questo studio documentatissimo sugli «ebrei d’Italia sfuggiti alla Shoah dal 1943 al 1945» ha l’indubbio merito di sfatare alcuni luoghi comuni: che cioè il fascismo italiano fosse una sola cosa con il nazismo di Adolf Hitler. Intendiamoci. I due regimi erano imparentati nell’ideologia e compenetrati inesorabilmente. Il leader-pagliaccio (come molti lo definivano in Germania, persino i comunisti) che veniva da Vienna, di sicuro meno attrezzato culturalmente di Benito Mussolini, aveva copiato il Duce all’inizio, costringendolo poi all’abbraccio mortale sul fronte di una guerra orrenda e di una sfida mortale. Guerra e sfida che hanno annientato più di una generazione di giovani. Decine di milioni di morti. Preambolo necessario per introdurre il tema della ricerca del Centro di documentazione ebraica contemporanea, che dimostra con cura e scrupolo i risultati di una indagine, prevalentemente orale (con tutti i limiti che questo approccio comporta) per capire quanti furono gli ebrei che riuscirono a salvarsi dalla deportazione nei campi di sterminio. Cito testualmente un passaggio del libro di Liliana Picciotto: «Gli ebrei presenti, alla fine di settembre del 1943, nell’Italia occupata, erano 38.994, di cui 33.452 italiani e 5.542 stranieri. Di tutti costoro, quelli identificati, arrestati e deportati (morti e sopravvissuti) oppure uccisi in Italia prima della loro deportazione, sono stati 7.172. Rimasero perciò non catturati e sfuggiti alla Shoah 31.822 ebrei, tra italiani e stranieri, oggetto di questa ricerca… Gli scampati rimasti in patria furono cioè più dell’81 per cento». Ovviamente, l’inizio della persecuzione sistematica è del mese di novembre del 1938, quando il governo fascista, con il Regio decreto legge 1728/1938 stabilì che diventava imperativo emanare i «Provvedimenti per la difesa della razza», sottintendendo che la razza incriminata fosse quella ebraica. La persecuzione aveva gravi conseguenze sociali (perdita del lavoro, espulsione dalle scuole del regno) ed economiche. Nessuno degli ebrei però, a parte i più darsene, immaginava quel che poi sarebbe accaduto. È evidente che le leggi razziali furono suggerite e caldeggiate da Hitler, e in realtà Mussolini vi si adeguò con qualche mal di pancia, perché il Duce sapeva che imporre drastiche misure agli italiani sarebbe stato controproducente. L’italiano non è e non sarà mai un carnefice. Forse si spiegano così i gesti di grande solidarietà con la minoranza perseguitata. L’esempio del console italiano fascista di Salonicco, Guelfo Zamboni, ne è una prova. Gino Bartali, campione di ciclismo, rischiò la vita per salvare decine di ebrei. I casi di coraggio civile, con l’avanzare della ricerca, si sono moltiplicati. Fino a dimostrare un’indubbia realtà: molti ebrei sono stati soccorsi e altrettanti si sono auto-salvati, adottando misure e comportamenti per sfuggire alla retate. C’è poi chi si è salvato per un evento imprevedibile e fortunato. Persino nei campi della morte non era impossibile sfuggire alle camere a gas. Sami Modiano, ebreo di Rodi, appartenente alla comunità italiana nell’isola greca allora sotto il controllo del nostro Paese, ci ha raccontato di avere evitato il «forno» per puro caso. Era già pronto a morire, quando venne salvato da un carico di patate giunto con un treno ad Auschwitz. Era necessario scaricare le patate e i nazisti decisero che quei condannati in buona salute sarebbero stati utili per missioni successive. Nedo Fiano, il padre del deputato del Pd Emanuele, si salvò perché conosceva il tedesco e sapeva cantare. Quando disse che veniva da Firenze, il colonnello di Hitler si commosse e lo abbracciò. Aveva trascorso nella città toscana una vacanza sentimentale con la fidanzata. Se l’orrore si coniuga con il sentimentalismo è davvero un disastro. Tuttavia il libro-ricerca, curato da Liliana Picciotto, è un formidabile veicolo di conoscenza. Un’enciclopedia di storie umane che ci raccontano di un’Italia, apparentemente indifferente, ma anche solidale con chi soffriva. Perché delle camere a gas quasi tutti erano informati.
Antonio Ferrari, Corriere della Sera, 26 settembre 2017