Oltre la Start-up Nation, il modello israeliano che investe sulle relazioni e l’innovazione
Non solo «Start-up Nation», come oramai d’abitudine si dice quando si parla d’Israele, ma qualcosa di più e di diverso. Quanto meno in prospettiva. E nei fatti, prima ancora che nelle intenzioni o nei calcoli di circostanza. Un conto è pensarsi ed essere vissuti dagli “altri” come un paese che agevola l’innovazione, fondando una parte crescente della propria economia sull’evoluzione intensiva ed estensiva delle intelligenze operative. Ben diverso discorso, invece, è il diventare il centro di ricerca d’eccellenza nel mondo. Due orizzonti distinti, benché tra di loro in diretta relazione. A differire non sono solo le dimensioni di scala (locali, nel primo caso; globali, nel secondo) ma anche le prospettive politiche che si accompagnano. Poiché se una economia ad alto tasso di innovazione è senz’altro uno dei fattori vincenti nella globalizzazione, il divenire un fondamentale tassello planetario nei processi di trasformazione tecnologica implica il potere esercitare un’egemonia culturale. La quale è poi destinata a riflettersi su molti altri paesi, concorrendovi a determinarne atteggiamenti, condotte e scelte di lungo periodo. La tecnologia in quanto sapere applicato, infatti, non è mai neutra. Una prospettiva fantascientifica o, addirittura, il manifestarsi, sotto nuove spoglie, del “mostro giudaico del complotto”? Nulla della prima ipotesi né, tantomeno, della seconda. Piuttosto il discorso è ben diverso, aggirando tra l’altro anche le tradizionali logiche del boicottaggio, delle sanzioni e dei disinvestimenti: l’incentivazione dei processi a forte tasso d’innovazione, destinati a produrre beni (ma anche pensieri) facilmente esportabili e fruibili un po’ ovunque, travalica le dimensioni dell’appartenenza nazionale, così come abitualmente la si pensa, scavalcando inoltre confini e divisioni di ogni genere. Crea semmai un sistema di relazioni e di scambi che diventano poi parte integrante del comune modo di pensare. Non è quindi solo una questione economica. Un tempo neanche troppo lontano Israele era una nazione piccola e determinata che lottava per la sua esistenza. Oggi è anche un modello culturale, molto sfaccettato poiché fortemente pluralistico. Il fuoco della sua identità è il rapporto tra tradizione e innovazione. Due facce della stessa medaglia che trovano nell’impegno di spesa per la ricerca e lo sviluppo (il 4,3% del Pil) un passaggio fondamentale. L’obiettivo, adesso, non è solo quello di continuare a crescere ma anche di trasformare Israele in un hub internazionale dell’innovazione. Si sa che il paese ha più società quotate al Nasdaq di qualsiasi altro Stato, con l’eccezione degli Usa, e più investimenti in venture capital di Germania e Francia. Tanto per dire. L’High-Tech, inoltre, costituisce oramai il 50% del suo export. Nel 2016 l’economia nazionale è cresciuta del 4%, a fronte di cinque miliardi di investimenti stranieri nel settore dell’innovazione. La chiave di volta, in questi ultimi vent’anni, è stata quella di creare un ecosistema favorevole al trasferimento di conoscenze e competenze dai luoghi di studio, così come dalla stesso società civile, ad un circuito imprenditoriale in continuo mutamento. Quella d’Israele è una economia di flussi persistenti, basata sugli scambi interni tra intelligenze e risorse e su quelli esterni al paese, con continui conferimenti di capitali in entrata e cessioni di saperi organizzati in uscita. Un modello culturale, quindi, sul quale è necessario riflettere in maniera non schematica. C’è un grande futuro nel proprio passato.
Claudio Vercelli, Pagine Ebraiche Ottobre 2017