#MeToo, la voce delle donne israeliane

Taglio centrale sx – Me too, violenze donne in IsraeleIl caso delle molestie sessuali di cui è stato accusato il produttore americano Harvey Weinstein ha prodotto una imponente campagna sui social network: migliaia di donne hanno condiviso su Twitter, Facebook, Istagram le proprie storie utilizzando l’hashtag #MeToo, e in Italia #quellavoltache. Un modo per far sentire la propria voce di fronte ad abusi e violenze subite nei luoghi di lavoro e nella quotidianità dagli uomini che non ha però trovato solo empatia. Una buona sintesi di chi ha criticato il movimento #MeToo sono le parole del parlamentare israeliano Bezalel Smotrich del partito di governo HaBayt HaYehudi. “La verità deve essere detta: la campagna #MeToo è falsa, faziosa e pericolosa, ideata per dipingere tutti gli uomini come molestatori e stupratori, e tutte le donne come vittime”. Una presa di posizione legata alla pubblicazione sul popolare giornale israeliano Yedioth Ahronoth di alcune testimonianze di attrici e giornaliste locali che hanno raccontato le proprie traumatiche esperienze (in ebraico il trend sui social era ינא םג, gam ani, anch’io) in Israele. Dopo essere stato duramente contestato, Smotrich ha poi cercato di precisare la sua posizione: “Sia chiaro: il fenomeno della molestia sessuale è un fenomeno sociale terribile e diffuso che deve essere limitato: con l’istruzione e l’intensificazione delle pene, e non con una guerra tra i sessi”. In realtà, in riferimento alla legge, Israele ha Taglio centrale sx – Me too, violenze donne in Israele 2una normativa (la legge sulle molestie sessuali del 1998) considerata all’avanguardia ed è anche un esempio di come le campagne social sul tema possano funzionare. Come ha raccontato tra gli altri la giornalista del canale televisivo della Knesset Mazal Mualem, la rete sta infatti aiutando a cambiare l’approccio della società israeliana sul tema delle molestie. Tra i primi gruppi di denuncia israeliani nati sui social c’è ad esempio Una su Una (תחא ךותמ תחא). Nato nel 2013, ha raccolto in questi anni circa 2500 testimonianze, per lo più anonime, di donne che postavano di maltrattamenti e violenze subite dagli uomini. “Non vogliamo più essere vittime. Non vogliamo dover dire ‘Me Too’, ma questa è la situazione – ha raccontato all’agenzia Jta Gal Shargill, avvocato e fondatrice del gruppo Una su Una
insieme all’attivista Shlomit Havron – Dobbiamo dirlo per renderlo reale, così sappiamo che siamo tutte delle sopravvissute a molestie e violenze sessuali”. E dirlo, ha un valore. Il 27 aprile 2015 May Fatal, una soldatessa israeliana, dopo aver denunciato il proprio comandante della Brigata Givati per averla molestata, ha deciso di raccontare su Facebook la sua storia. Una scelta arrivata dopo che Fatal ha scoperto i dettagli del patteggiamento tra il comandante e la magistratura militare, ritenuti troppo lievi. “Ho deciso che non ho altra scelta che condividere la mia storia personale, dato che, dopo tutto quello che ho attraversato, ora sono costretta a confrontarmi con un’imputazione svilente e un patteggiamento non meno umiliante dell’incidente stesso”, le parole di Fatal, il cui post è stato poi condiviso da centinaia di donne e non solo che chiedevano giustizia. Alla fine il comandante Liran Hajbi, responsabile delle molestie, è stato punito, degradato con disonore e ha lasciato l’esercito. Un’altro caso simile è accaduto nel novembre dello stesso anno con un collega di partito di Smotrich, Yinon Magal: denunciato dalla giornalista Rachel Rotner sui social per molestie quando era direttore del sito Walla!, Magal, poco dopo essere eletto alla Knesset, è stato costretto alle dimissioni. Nell’era della demenza digitale, a volte far sentire anche la propria voce ha un valore.

Daniel Reichel