Mahshevet Israel – Lechaim, un augurio per la vita
Non ho conosciuto Rav Laras se non tramite la lettura di alcuni dei suoi testi – durante la triennale in filosofia, in Statale, preparai un esame monografico per la cattedra di pensiero ebraico, dopo di lui retta dai professori Giulio Busi e Patrizia Pozzi, proprio su un programma da Laras preparato anni prima su Maimonide. Il giorno dopo la sua scomparsa mi sono imbattuto nell’articolo a lui dedicato dal Corriere della Sera a firma di Gian Guido Vecchi. Nell’articolo, oltre a una restituzione a tutto tondo del profilo di rabbino e docente, venivano ripresi dei virgolettati di Laras, suppongo estrapolati da interviste in precedenza rilasciate allo stesso quotidiano. In uno di questi Laras ricordava il giorno (2 ottobre 1944) in cui, a causa di una delazione, venne assieme alla madre e alla nonna materna preso dai fascisti. Laras rievoca quindi il cammino verso l’Albergo Nazionale, a Torino, doveva aveva sede la Gestapo: “Guardai mia mamma, mi liberai con uno strattone e corsi via: fu l’ultima volta che le vidi, lei e la nonna”. Uno scambio di sguardi, come sottolinea Vecchi, è ciò in cui si risolse quel momento. Proprio il contrasto tra l’assenza di parole e l’azione è ciò che mi colpì del racconto – analogo ma differente negli esiti – della madre di mia madre, di quando venne avvisata dal macellaio dell’arrivo della Gestapo, a Firenze. Una delazione di contro a un’azione giusta. “Dopo che mi avvisò” mi raccontava “incrociai mia madre sull’altro lato della strada e senza dire nulla, con uno sguardo, camminammo fino a raggiungere un posto fuori città”. Beneficiamo tutti, in una misura o in un’altra, dell’impegno di Laras, come rabbino, se pensiamo a ‘noi’ come parte della comunità; come docente e come uomo impegnato nel dialogo interconfessionale, se pensiamo a ‘noi’ come cittadini. E talvolta, come nel mio caso, i piani si intrecciano, poiché se in una delle tante famiglie miste, quale la mia, la parte ebraica ha potuto avere una eco nell’altra è anche perché vi è tutto un retroterra culturale, preparato da uomini di diversa provenienza che, come Laras, hanno lavorato al dialogo, che dovrebbe aver segnato la distanza da quando nelle messe cristiane ricorreva l’epiteto “perfidi Iudaei”. Beneficiamo, in base a storie differenti, accomunate dalla necessità di sfuggire alla Endlösung, dello sforzo e della fortuna di nonni e genitori e di coloro che non fecero i delatori, di quelli che – come il macellaio di mia nonna (e dovrei aggiungere, un sacerdote…) si sono spinti un po’ più in là. Vi è dunque un rapporto strettissimo tra condizioni materiali e spirituali: ciò è vero a un livello basilare (senza sopravvivenza non vi è popolo e quindi pensiero ebraico possibile) nonché a un livello più ampio: senza una vita collettiva (e non solo una sopravvivenza individuale) non vi sono le condizioni per quello scambio tra esperienze e idee, dentro la keillà e tra questa e la società civile, che permette il fiorire delle diverse forme di pensiero ebraico. Vi è quindi un fil rouge che corre tra l’augurio di “Le’haim” scandito a un kiddush, o a una qualsiasi occasione, la più forte e talvolta retorica dimostrazione di esistenza, “am Israel hai” e il termine “mahshevet Israel” – pensiero ebraico. È il fil rouge che unisce la sopravvivenza del singolo alla vita del gruppo e, quindi, al fiorire intellettuale.
Cosimo Nicolini Coen