MUSEI Mille anni di ebraismo italiano
«Amato da tutti», sta inciso in latino alla fine del suo scarno epitaffio di pietra. In calce, una piccola menorah, il candelabro del Tempio di Gerusalemme ormai distrutto, segno della sua appartenenza. Alexander faceva il macellaio a Roma, intorno al III secolo d.C., e se quasi sempre è così difficile intravedere la vita vera dietro la storia con i suoi documenti e le sue tracce materiali, quella vita torna a noi quasi intatta, con la sua «diversità» di ebreo ma anche nel segno di una vicinanza amica, in fondo inattesa. E proprio questo il segno della mostra «Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni» che apre quest’oggi la vita del Meis, il Museo dell’Ebraismo Italiano e della Shoah, in via Piangipane a Ferrara. Perché, come spiegava Daniele Jalla, uno dei curatori di questa spettacolare mostra che è anche, soprattutto, un avvincente cammino in mille anni e più di storia, se la vicenda ebraica nella Diaspora può essere interpretata con due estremi – l’assimilazione o l’eliminazione -, quella degli ebrei italiani offre da sempre una terza via, che è un’integrazione consapevole. Malgrado molte difficoltà e una certa abbondanza di tragedie, l’ebraismo italiano vive da millenni in bilico fra la propria esiguità numerica e delle solide, tenaci radici che affondano in questa terra, e danno frutti. Questo è il filo conduttore del Meis, inaugurato ieri alla presenza del Presidente della Repubblica e del ministro per i Beni Culturali Dario Franceschini: diversità e integrazione, con un’attenzione costante a quella unicità che è la storia ebraica italiana. Una giornata che è stata un vertiginoso cammino a ritroso nella storia, a partire dalla conferenza stampa che ha visto dialogare il Presidente del Museo, Dario Disegni, il Ministro Franceschini, Tiziano Tagliani sindaco di Ferrara, Michele Coppola, Responsabile Attività Culturali Intesa San Paolo, e Daniele Jalla a nome dei curatori della Mostra – con lui hanno lavorato Anna Foa e Giancarlo Lacerenza – sul futuro del Meis ma anche sulla riforma del sistema museale italiano e soprattutto sull’educazione alla convivenza per le nuove generazioni. Dal presente e dal futuro della cultura, entrare nella mostra è stato come precipitare negli abissi di un passato a cui tutti in fondo apparteniamo. Nei locali di quello che sino a non moltissimi anni fa era il carcere di Ferrara e che da un punto di vista strutturale è la parte originaria degli edifici museali che saranno pronti nel 2020, la mostra sui «Primi Mille Anni» dell’ebraismo italiano – che resterà aperta sino al 16 settembre 2018 ma di fatto costituisce il primo nucleo dell’esposizione permanente del museo – comincia da Gerusalemme, perché qui tutto comincia, e tutto torna… Ma la prospettiva con cui si avvia il cammino espositivo della mostra e del Meis, un cammino supportato da una «applicazione» del multimediale davvero significativa e di grande impatto, è Gerusalemme vista dal deserto, Gerusalemme come meta di quel viaggio ancestrale che si dirige verso la Terra Promessa. Poco dopo, di sala in sala, il visitatore si trova a passare sotto l’Arco di Tito, che da due millenni è il simbolo stesso della Diaspora, cioè di un esilio ebraico che è anche dispersione: li sotto gli ebrei romani per scaramanzia non sono mai passati sino al 1948, anno della fondazione dello Stato d’Israele. Dall’arco di Tito in poi, passando per il macellaio Alexander ma anche per la «iudaea» Claudia, una giovane schiava amata e rimpianta dal liberto che l’aveva comprata – come è detto nella sua lapide -, la storia ebraica italiana si dipana nei suoi eventi cruciali, nelle sue straordinarie conquiste culturali, nei suoi spostamenti lungo il nostro Stivale, attraverso una ricca messe di oggetti in mostra. Ma soprattutto, e in piena fedeltà a una vicenda storica fatta di libri e parole più che di monumenti e materia, attraverso il racconto di ciò che è stato. Un racconto fatto di luci e ombre, di rispetto e segregazione, di curiosità reciproca e a volte di odio. Ed è davvero significativo che il Meis apra in questo dicembre, alla vigilia del 2018 che segnerà gli 80 anni dall’emanazione delle Leggi Razziali: quasi un invito alla riflessione su quel passato e il nostro futuro.
Elena Loewenthal, La Stampa, 14 dicembre 2017